Gai-Jin (211 page)

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Authors: James Clavell

Tags: #Fiction, #Action & Adventure

BOOK: Gai-Jin
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Sola, nel suo appartamento, Raiko stava bevendo sakè. Presto sarebbe passata al brandy e all'oblio affogando nell'alcol tutti i cattivi pensieri: la paura e l'odio per Hiraga e le speranze che nutriva per lui, l'orrore per il gesto di Meikin e la stima nei suoi confronti si alternavano a ogni tazzina svuotata.

In fondo al giardino, nascosto nella sua casetta sicura, Hiraga meditava seduto nella posizione del loto per scacciare il fastidioso mal di testa che le notizie su Katsumata e l'incontro con Tyrer gli avevano provocato.

Presto Akimoto sarebbe tornato e avrebbero deciso come comportarsi con Takeda.

Oltre il recinto, in un padiglione nel giardino della Casa dei Ciliegi, Akimoto era ubriaco di sakè. Dondolando davanti a lui Takeda ruttò e trangugiò la sua birra. Akimoto svuotò un'altra bottiglietta di sakè e piombò addormentato lasciando cadere il recipiente per terra. Cominciò a russare. Takeda, molto meno ubriaco di quanto avesse voluto far credere, sorrise.

Accertatosi che Akimoto dormisse aprì lo shoji e se lo richiuse alle spalle. La notte era fredda e battuta dal forte vento del sud. Grattandosi con forza l'ispida e fastidiosa peluria scrutò nell'oscurità. Una cameriera correva verso l'edificio principale reggendo un vassoio. In lontananza Takeda sentì il canto stonato di alcuni ubriachi e il suono di un samisen. Un cane abbaiò.

Non appena la cameriera fu scomparsa indossò la giacca imbottita, si infilò le spade nella cintura, calzò i sandali di paglia e sgattaiolò in un sentiero, svoltò in un altro e in un altro ancora finché non si trovò vicino allo steccato.

Nascoste sotto un cespuglio ritrovò le cinque bombe preparate da lui e da Hiraga con accanto micce di varia lunghezza.

Le bombe erano costruite con due segmenti di bambù gigante lunghi una trentina di centimetri e larghi la metà legati insieme, riempiti l'uno con la polvere da sparo avanzata a Katsumata, l'altro con olio e poi sigillati.

Le micce erano fatte con corde di cotone impregnate con una soluzione di polvere da sparo e lasciate asciugare.

Collegò in fretta le micce alle bombe, prima le tre più lunghe, che sarebbero durate una candela circa, quasi due ore, poi le altre due, corrispondenti a una mezza candela.

Guardò per l'ultima volta il cielo. Le nuvole erano sospinte dal vento.

Bene. Prese due bombe con la miccia lunga e confondendosi facilmente nell'oscurità raggiunse lo steccato a sud confinante con il giardino delle Tre Carpe, infilò una porta segreta e si diresse verso il padiglione meridionale che, secondo l'uso, poggiava su palafitte alte circa trenta centimetri.

Il padiglione era abitato e illuminato. Con circospezione si infilò nell'intercapedine e aiutato dal vento che copriva il rumore della pietra focaia accese la miccia. Sentì sopra di sé i passi di una donna, si immobilizzò, poi udì uno shoji che veniva scostato e richiuso dopo un istante.

Con qualche foglia a portata di mano coprì la miccia che bruciava sfrigolando e scappò nel giardino, ombra tra le ombre. Alla vista di un gai-jin che risaliva il sentiero si nascose dietro una macchia di arbusti.

L'uomo passò senza accorgersi di lui e Takeda riprese la corsa verso l'edificio principale.

Con cura collocò la seconda bomba.

Tornò allo steccato evitando un inserviente e una vecchia cameriera corpulenta, raggiunse il deposito segreto dove prese la terza bomba con la miccia lunga e corse via di nuovo. Acceso l'ordigno lo sistemò sotto la propria stanza. Il russare ignaro di Akimoto gli suscitò un sorriso sinistro.

Sudato ed euforico tornò per l'ultima volta al deposito. Fino a quel momento tutto stava procedendo secondo il piano di Ori. Hiraga era contaminato dai gai-jin. Anche Akimoto. Lui no, e quindi avrebbe agito da solo.

Prese le due bombe rimaste, attraversò il giardino, scavalcò tre steccati e si trovò nella radura del pozzo segreto. Sapendo che Hiraga non c'era si infilò nell'imboccatura e rimise il coperchio.

Arrivato in fondo riprese a respirare e accese la lampada a olio. Il suo occhio cadde sul giaciglio di Hiraga e sulle sue poche cose disseminate li attorno.

Lo zaino di Katsumata con le bombe nei tubi di metallo era nascosto sotto una coperta. Vi sistemò anche le bombe appena portate, si caricò lo zaino sulla schiena e si precipitò lungo il cunicolo.

Giunto nel tratto dove l'acqua impediva il cammino si spogliò e fece un involto dei vestiti.

L'acqua gelata gli toglieva il respiro. Nel punto più stretto della galleria il soffitto roccioso gli sfiorava il capo e l'acqua gli arrivava al mento.

Tenendo a fatica la lampada e lo zaino fuori dell'acqua proseguì. Finito quel tratto si rivestì in fretta tremando e imprecando perchè aveva ancora molte cose da fare.

Ma l'importante era avere incominciato.

Portata a termine la missione sarebbe vissuto in eterno. Quella certezza lo scaldava e gli impediva di sentire il freddo.

In fondo al cunicolo, davanti ai gradini di ferro che salivano e al pozzo che precipitava nel vuoto si fermò per riprendere fiato. Poi cominciò a salire. Scivolò e quasi cadde, ma riuscì ad aggrapparsi e aspettò finché il cuore non si fu calmato.

Riprese a salire. Con grande cautela spostò il coperchio rotto e si guardò intorno.

La Terra di Nessuno era deserta. Dalla Città Ubriaca giungevano grida e canti sguaiati, alcuni uomini barcollavano nei vicoli non lontani accompagnati dall'abbaiare dei cani.

Il villaggio e l'Insediamento si affacciavano sulla costa a settentrione della Città Ubriaca e lo Yoshiwara era ubicato a meridione. Sia il piano di Ori che quello di Katsumata e Hiraga indicavano dove collocare le bombe incendiarie per approfittare del vento del sud che avrebbe sospinto le fiamme estendendo l'incendio a tutto l'abitato.

Takeda lasciò lo zaino tra le erbacce e nascose una bomba a miccia corta contro un magazzino fatiscente e l'altra sotto un tugurio, poi coprì le micce fumanti con uno strato di rifiuti.

Mentre correva a prendere le altre bombe fu costretto ad acquattarsi dietro a un mucchio di spazzatura per non essere visto dalla ronda notturna che veniva dal villaggio. La ronda partiva sempre dalla Legazione britannica, percorreva High Street, attraversava la Terra di Nessuno, scendeva nella Città Ubriaca e tornava sul lungomare. Due volte per notte. A una ventina di metri da Takeda i soldati si fermarono a ridosso del magazzino per fumare e per orinare.

Inchiodato al terreno, Takeda imprecò.

Da quando aveva acceso la prima miccia erano passati più di tre quarti di candela.

 

“Buonasera, Hinodeh” aveva detto André qualche ora prima, presentandosi nel loro padiglione nel giardino. “Mi dispiace per il ritardo.”

“Buonasera, Furansu-san. Non sei mai in ritardo. Tutto quello che fai è giusto” rispose lei con un sorriso. “Vuoi un sakè?”

“Grazie.” André si sedette davanti a lei e la osservò mentre versava il liquore.

Sotto il tavolo basso era sistemato un piccolo braciere ed entrambi si erano stretti intorno ai fianchi l'abbondante tovaglia trapuntata che ricadeva dai bordi trattenendo il calore. La grazia di Hinodeh era sublime più che mai: i luminosi capelli corvini fermati da spilloni decorati, un velo di rossetto sulle labbra, le lunghe maniche che danzavano intorno alla bottiglietta senza sfiorarla.

Quella sera indossava un kimono che André non le aveva mai visto, di una splendida sfumatura di verde, il suo colore favorito, intessuto di fili d'argento e decorato con grandi aironi, il simbolo della longevità, da cui spuntava vezzosamente il bordo di un sottokimono trasparente, Con un inchino gli porse la tazza di sakè non riscaldato, come piaceva a lui, poi da un'altra bottiglietta se ne versò una tazzina calda. André ne fu sorpreso perchè lei beveva molto di rado.

Hinodeh sollevò la tazza con uno strano sorriso.

“A ta santé, chèri, je t'aime” esclamò imitando il suo accento.

“A ta santé, chérie, je t'aime” rispose lui con una stretta al cuore.

Non poteva credere alle sue parole, come poteva amarlo?

Fecero tintinnare le tazze nel brindisi, Hinodeh bevve d'un fiato, tossì, ma subito versò ancora sakè per entrambi. Di nuovo sorrise e alzò la tazza. Bevvero e ne versò dell'altro.

“Mon Dieu, Hinodeh, stai attenta, sì?” disse lui ridendo. “Non sei abituata al sakè. Attenta a non ubriacarti!” Lei dischiuse le labbra voluttuose in un sorriso smagliante. “Prego, Furansu-san, questa sera è speciale. Bevi e su felice. Prego.” Questa volta sorseggiò guardandolo da sopra la tazza. La luce ondeggiante delle candele danzava nei suoi occhi che a lui sembravano senza fondo, inquietanti e ammalianti.

“Perché speciale, Hinodeh?”

“Oggi è Seji-no-Hi, il giorno della maggiore età, è dedicato a tutte le persone che hanno compiuto i vent'anni. Tu hai compiuto vent'anni, no?” spiegò lei allegramente, poi indicò la grande candela sul tavolo.

“Questa candela l'ho dedicata per te al dio del mio villaggio, Ujigami.” Volse lo sguardo verso la porta, al di sopra dello shoji c'era una composizione di rami di pino e bambù. “Quello è un Kadamatsu, simboleggia la stabilità.” Sorrise con timidezza e bevve ancora. “Spero che ti piaccia.”

“Oh, sì, grazie, Hinodeh” rispose lui commosso.

Qualche settimana prima, saputo che era il suo compleanno, André le aveva portato una bottiglia di champagne ghiacciato e un braccialetto d'oro. Lei aveva arricciato il naso per le bollicine del vino e pur dicendo che era buonissimo aveva bevuto soltanto dietro sua insistenza. Così lui aveva finito la bottiglia da solo e quella notte aveva fatto l'amore con frenesia.

Da quando stavano insieme aveva avuto modo di constatare che la violenza della sua brama non la offendeva e che Hinodeh rispondeva a qualsiasi cosa lui facesse coricandosi poi accanto a lui come se fosse stremata.

Tuttavia quanto davvero godesse dei loro incontri rimaneva un mistero, e lui continuava ad arrovellarsi intorno alle sue simulazioni, se di simulazione si trattava, e all'enigma che lei rappresentava.

Un giorno sarebbe riuscito a svelare quell'enigma, ne era convinto.

Bastava avere pazienza, ecco tutto. E quando infine fosse riuscito a schiudere la corazza che proteggeva l'enigma, la sua folle e insaziabile passione si sarebbe acquietata, avrebbero fatto l'amore con dolcezza e lui avrebbe trovato la pace.

Hinodeh era tutto per lui, nient'altro gli importava più. Quel pomeriggio si era umiliato davanti ad Angélique e l'aveva supplicata, implorata e minacciata finché lei gli aveva dato una spilla al posto del denaro che non aveva. Raiko l'aveva accettata.

Angélique è stupida. Perché esita? Dovrebbe accettare immediatamente l'offerta di Tess, prima che venga ritirata. E' un'offerta generosa, molto più generosa di quanto mi aspettassi, considerando l'insostenibilità della sua posizione: nessun testamento a suo favore e nessuna eredità da rivendicare! Cinquecento ghinee di anticipo entro tre settimane!

Magnifico, un dono del cielo! Angélique potrà darmene quattrocento e io in cambio della sua garanzia convincerò gli usurai ad anticiparmi duemila ghinee o quanto occorrerà. Skye è un idiota. Dopo che io le avrò parlato, accetterà quelle condizioni nonché l'anticipo che ci serve. Sono salvo!

Guardò Hinodeh e sorrise di gioia.

“Cosa c'è?” Lei si faceva vento con il ventaglio per calmare il rossore provocato dall'alcol.

Lui le rispose in francese: “Sono libero, amore mio, presto avrò finito di pagare per te e sarai mia per sempre”.

“Spiacente, non capisco.”

Tornando al giapponese André spiegò: “Questa sera sono felice perchè tu sei mia. Sei bellissima e sei mia”.

Hinodeh rispose al complimento chinando il capo. “Anche tu sei bello e sono contenta quando tu sei felice con me.”

“Lo sono sempre.” Non era vero. Spesso si irritava e fuggiva, e sempre per lo stesso problema, quando un pretesto qualsiasi lo portava dapprima a chiedere, poi a rimproverare, a supplicare, a pretendere, a implorare e a gridare: “Non abbiamo bisogno del buio! Siamo amanti e non abbiamo più bisogno del buio, siamo amici oltre che amanti, io sono legato a te per sempre. Per sempre! Ti amo, non saprai mai quanto ti amo, non puoi saperlo, e continuo a implorarti, ma tu rimani li immobile...”.

Riceveva sempre la stessa paziente e miserabile risposta: spesso piangendo Hinodeh chinava il capo sul pavimento e con un tono che non ammetteva repliche mormorava: “Per favore scusami, ma hai accettato, spiacente, hai accettato”.

Hinodeh aveva le guance sempre più rosee. Bevve ancora; con mano tremante si riempì subito un'altra tazzina e versò qualche goccia di sakè sul tavolo. Trattenne il respiro e rise.

“Oh, spiacente.” Bevve d'un fiato, l'ubriachezza la rendeva ancora più affascinante.

“Oh, è molto buono, è buonissimo, Furansu-san, neh?” Con le lunghe dita dalle unghie perfette agitò la bottiglietta, era vuota. Si alzò con grazia e ondeggiando nell'ampio kimono scivolò verso il braciere e il catino d'acqua bollente nel quale erano immerse altre bottigliette, poi verso il davanzale della finestrella dove erano allineate le bottiglie di sakè da raffreddare.

Per un istante la stanza fu invasa dal vento, e da un odore leggero ma inconfondibile di polvere da sparo.

“Che cos'è?” chiese André in francese.

Lei sussultò. “Prego?” Non appena la finestra fu richiusa l'odore svanì. “Niente, pensavo...” Quella sera tutto in lei lo seduceva. “Niente, per favore vieni qui.” Quasi cadendogli addosso, Hinodeh si sedette accanto a lui. Rise e con mano malferma si versò da bere. Divertito bevve anche André, il sakè lo riscaldava, ma non quanto riscaldava lei. Sotto la trapunta le gambe si sfiorarono.

Lui le posò una mano sulla sua e con l'altra le cinse la vita e la baciò.

Le sue labbra erano umide e morbide, la lingua sensuale.

Quando spinse la carezza verso il pube lei si scostò e ridendo gli disse: “Aspetta, aspetta, non qui, questa sera...”.

Dopo averlo respinto come una ragazzina al primo incontro, Hinodeh si alzò e si avviò verso la camera da letto. Ma quella sera invece di spegnere l'unica lampada come al solito e di chiamarlo quando era pronta si fermò sulla porta, vi si aggrappò per non perdere l'equilibrio e girandosi lo fissò con gli occhi accesi. “Furansu-san.” Senza staccare lo sguardo da lui si sfilò gli spilloni dai lunghi capelli e li lasciò ricadere sul seno. Allentò l'obi. Rise. Si sfilò il kimono.

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