Virus (20 page)

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Authors: Sarah Langan

BOOK: Virus
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Continuò a camminare. Non voleva tornare a casa, ma non aveva nessun posto dove andare. Forse poteva vagabondare senza meta per qualche ora, e dopo il tramonto sarebbe rientrata e avrebbe raccontato a suo padre che si era iscritta al club. Anzi, che l'avevano eletta presidente. Magari ci avrebbe creduto. Almeno per un po' avrebbe tenuto a bada quel sorrisetto saputo, che sembrava volerle dire che era contento che fossero entrambi sulla stessa barca di sfigati, così lui non era costretto a starci da solo...

Dopo mezzo miglio di strada raggiunse il Puffin Shop. Scrutò attraverso la vetrina, ma Enrique Vargas non c'era. Al suo posto c'era il suo fratello minore, seduto al registro di cassa. Enrique era gentile con lei. Le permetteva di stare al negozio anche se non comprava mai niente. In due occasioni aveva fatto finta di non vederla quando lei aveva allungato la mano verso gli spiedi automatici e rubato una manciata di hotdog raggrinziti. Aveva una piccola cotta per Enrique. Gli aveva scritto tre lettere, che aveva poi seppellito sotto le travi smosse del pavimento nel seminterrato perché suo padre non le trovasse. Probabilmente sarebbe stato più prudente bruciarle, ma temeva che facendolo non si sarebbero avverate. Una delle lettere diceva: «Amore mio, anche se sei straniero, io sarei pronta a morire per te. Somigli a Leonardo di Caprio in
Titanic
,
quindi so che anche tu ti sacrificheresti per me.»

Invece il fratello minore di Enrique era uno stronzo. A scuola la prendeva in giro perché non era carina, o forse perché sapeva che l'avrebbe passata liscia. Probabilmente credeva che se l'avesse presa di mira alla gente sarebbe risultato simpatico anche se parlava con l'accento straniero. Aveva ragione. Quindi, anche se aveva sete e avrebbe voluto una Coca Cola e per una volta aveva in tasca il dollaro e cinquanta della lattina, continuò a camminare.

Risalì la collina. Superò l'abitato. Si diresse al bosco. Sarebbe stato meglio avere il cappotto, o almeno un maglione. Ma era uscita di casa troppo emozionata per il vestito grazioso e le sue grosse tette. Dopo un po' raggiunse la strada secondaria che da Corpus Christi portava a Bedford. Aveva sentito dire che un ragazzino era scomparso e mezza città lo stava cercando. Era il figlio di un dirigente dell'ospedale, il che spiegava perché tutti si dessero tanto da fare. L'anno prima suo padre era stato licenziato dall'obitorio per i troppi giorni di malattia. La liquidazione era ormai agli sgoccioli, e avrebbe dovuto alzarsi dal divano per cercarsi un nuovo lavoro: ma lei dubitava che lo avrebbe fatto. Probabilmente sarebbe rimasto stravaccato a bere birra finché non avrebbe perso la casa, e a quel punto lei che fine avrebbe fatto?

Per il momento non andavano mai a mangiare fuori, e non facevano mai la spesa tranne al Puffin Stop. Non dicevano la preghiera di ringraziamento prima dei pasti come facevano prima che sua sorella se ne andasse a fare la barista in Florida. Il loro prato era marrone anche d'estate. In città non salutavano mai nessuno, e nessuno salutava loro.

La birreria di suo padre era una catapecchia a circa un miglio di distanza lungo la strada. Gran parte degli avventori erano di Bedford, perché i cittadini di Corpus Christi erano quasi tutti soci del golf club. Quanto al club della birra, era il posto dove suo padre e i suoi amici si riunivano per giocare a carte. Dopo l'incendio alla cartiera non ci andava più tanto spesso. Gran parte dei soci si era trasferita altrove.

A intervalli di qualche minuto passava un'auto sull'una o sull'altra corsia. Poliziotti e volontari che cercavano James Walker, intuì lei. Passandole davanti rallentavano. Quando si accorgevano di non riconoscerla o di non conoscerla abbastanza bene da offrirle un passaggio, acceleravano di nuovo. Una delle auto si arrestò proprio al suo fianco. Lei si girò a lanciare un'occhiata di fuoco al conducente, perché in quel momento era stufa marcia di tutto. Stufa marcia delle cheerleader giulive, di suo padre, della sua bici di merda ormai morta, e del burro di arachidi con marshmellow: e che cazzo? I marshmellow non contano come latticino, giusto? Si voltò, pronta a mandare affanculo l'autista. Ma invece che alzare il dito medio, arrossì. La macchina era una Saturn gialla di seconda mano. Il suo sguardo si fissò su quello del conducente. Suo padre.

Era un uomo magro con una gran chioma di ricci castani della quale era stupidamente orgoglioso. Usciva con un sacco di vedove e divorziate trentenni, ma nessuna di loro resisteva mai a lungo. Probabilmente per colpa della sua linguaccia.
Sei brutta, stupida, pigra, inutile
si immaginava che lui dicesse a tutte dopo un paio di settimane. Ne era certa, perché diceva le stesse cose anche a lei.

Indossava la sua felpa grigia preferita. La preferita e anche l'unica. Sul sedile accanto al suo c'erano tre lattine magnum di Budweiser. Il che faceva supporre che ce ne fossero altre tre vuote sotto il sedile. Si era fatto un giro in macchina, bevendo alla guida, in attesa che aprisse il club della birra. Per un secondo lei non lo vide come suo papà, ma come un ubriacone di mezz'età che si era messo in testa di rimorchiare una minorenne dal marciapiede. Provò vergogna per lui. E il peggio era che lui aveva la delusione disegnata in faccia, come se avesse sperato che quella sera gli andasse di lusso, e invece era incappato nella ragazza che gli piaceva di meno. La delusione valeva per entrambi.

Ma fuori faceva freddo, e il sole era tramontato. Lei non aveva il cappotto. Solo un vestito leggero. Non c'erano lampioni su quella strada. Meglio guardare il lato positivo. Almeno aveva trovato un passaggio. Ingobbì la schiena nel gesto di chi alla sconfitta ci ha fatto così tanto il callo che provarne rammarico è ormai soltanto una formalità, e si diresse verso la portiera. Le pareva che il mondo la stringesse d'assedio, come se la vita le risucchiasse l'aria dai polmoni. Si torna a casa, di nuovo. Un altro anno senza un posto dove andare tranne le quattro mura della sua stanza. Rabbrividì mentre camminava. Il sorrisetto saputo si allargò sulla faccia di suo padre, congestionata dall'alcol. Lui premette sull'acceleratore. La maniglia le sfuggì dalle dita, e prima ancora di capire cos'era accaduto lo vide sgommare via.

Seguì con lo sguardo la macchina che si allontanava a tutta velocità. Sputava fumo dal tubo di scappamento mentre i fari gialli sparivano alla vista. Rimase a tremare in mezzo alla strada per un po', aspettando che tornasse indietro.
Era solo uno scherzo
,
avrebbe detto.
Scusami. Lo scherzo mi ha preso la mano. Devi essere morta di freddo.
Ma lui non era tornato. L'aveva lasciata lì, da sola. Resistette per una decina di minuti prima di scoppiare a piangere.

Poi camminò a lungo, anche se ormai faceva buio e le battevano i denti. Dopo circa un miglio passò davanti al club della birra dove vide parcheggiata la macchina di suo padre. Pensò di prenderla a calci, come la bici, o di rigare la vernice gialla e scadente della carrozzeria con una chiave, ma continuò a camminare. Trascorse un'altra ora, e la strada si inoltrò nel bosco. A tratti tra gli alberi si intravedevano delle torce. Qualcuno gridava il nome di James Walker.

Avanzò verso le luci. Forse le avrebbero prestato un maglione. Il bosco era scuro e brullo.
Crac crac crac
,
crepitavano le sue scarpe. Stasera suo padre sarebbe rientrato tardi. Se fosse tornata sui suoi passi in quello stesso istante avrebbe potuto essere già a letto addormentata prima del suo arrivo. Ma avrebbe comunque dovuto rivederlo la mattina dopo. I rami le graffiavano il volto, e lei pensò al sorrisetto saputo. Ricominciò a piangere. Aveva visto quello sguardo negli occhi di suo padre, come se in realtà quello che voleva davvero non fosse andarsene via. In realtà voleva farle del male. Non poteva tornare a casa. Non quella notte. Mai più.

Fu allora che avvertì un fruscio. Come di foglie che venivano rastrellate sull'erba secca. Si bloccò. Non c'era un alito di vento, eppure i rami tra due grandi pini si agitavano.
Un animale?
si chiese. E poi il cuore prese a batterle forte. I rami erano molto in alto, e robusti.
Un animale, grosso.

Cominciò ad arretrare. Lentamente. Davanti a un orso non bisogna scappare. Bisogna urlare e fare baccano per spaventarlo, ma in quel momento urlare davanti a un orso le parve un'idea da scervellati. Gli alberi si scossero più forte finché persino le cime presero a dondolare. I rami più bassi oscillavano in ampi cerchi, e chissà perché le venne da pensare ai remi di un grande vascello. Qualunque cosa fosse, quell'affare aveva una forza incredibile.

Un passo, poi un altro. Arretrava. Il battito del cuore rallentò. Non pensava più a suo padre, né alla casa, né a quanto odiasse tutti sull'intera faccia della terra. Arretrava, un passo alla volta.

Spuntò dagli alberi. L'uomo. Era più grosso di chiunque avesse incontrato prima. Almeno due metri d'altezza. Sotto il camice d'ospedale aperto, era completamente nudo. Lei cercò di non guardare il ciuffo di peli là sotto. Lungo il ventre si vedeva una fila di punti chirurgici. Alcuni si erano lacerati, e riuscì a vedere una ferita rosa e senza sangue, come quelle dei film, un trucco di vernice rossa e cera. La pelle cascante gli andava su e giù sulla cassa toracica mentre si avvicinava. All'inizio lei non capì cosa stesse succedendo, poi d'un tratto comprese. La pelle andava su e giù perché lui stava correndo dritto verso di lei!

Accorciava le distanze. Dieci metri. Sette. Cinque. Lo spostamento d'aria la colpì mentre nella sua mente esplodeva una raffica di pensieri frammentari, come una sfilza di petardi.
Che occhi neri che hai
,
pensò, e poi:
è per mangiarti meglio, mia cara.
E
forza, Trojans!
E infine:
scappa. Scappa. SCAPPA!

Prima ancora di deciderlo, si trovò a correre a rotta di collo. I sandali Payless le volarono via. Rami e pietre aguzze le laceravano le piante dei piedi. Alle sue spalle, la terra tremava sotto le falcate dell'uomo che la inseguiva.

Non si voltò a guardare. Nella sua mente continuava a esplodere un pensiero dopo l'altro, ma ormai erano quasi insensati (
Mostro-Occhi-Neri-Ghigno-Saputo!
).

D'un tratto calò l'oscurità, e lei non ricordò se il cielo si fosse rannuvolato, o se fosse stato buio da sempre. Saltò sopra quello che sembrava un tronco e i piedi le sprofondarono (
Fango? Sangue? Una magnum di Budweiser?
) dentro qualcosa di fradicio e molle. Cadde, ma andò avanti ginocchioni e poi riuscì a rimettersi in piedi.

Dietro di lei, l'uomo faceva tremare la terra a ogni passo. Ma era davvero un uomo? Era curvo, come se più che eretto fosse una creatura a quattro zampe. I seni le dolevano, ciondolando per la corsa, e si pentì amaramente di non essersi messa il reggiseno quella mattina. Inciampò di nuovo, questa volta su un sasso, e cercò febbrilmente di rialzarsi in piedi, ma adesso c'era qualcuno anche davanti a lei. Non era l'uomo, ma un gruppo di persone. Una decina. Erano bassi, o forse ingobbiti. La squadra di ricerche!

«Aiuto!» cercò di gridare, ma non produsse altro che un sussurro affannoso: «Auuoo».

Dall'ombra ne spuntarono altri. Non sapeva quanti. Aveva troppa paura per contarli. Avevano i piedi scalzi e sporchi, come se abitassero laggiù. Erano soprattutto bambini. Piccoli - dell'età di James Walker. Alcuni avevano anche la sua età. Gli stessi che oggi erano rimasti a casa malati. Non aveva nessuna importanza, ma non poté fare a meno di pensare:
forse questo posto era diventato il nuovo ritrovo dei ragazzi fichi della scuola?

«Ehi, Jeannie, ti sei persa?» domandò Justin Ross. Era accucciato, con la punta delle dita appoggiate a terra. Per dieci anni a scuola aveva occupato il banco dietro al suo. Per dieci anni l'aveva tormentata. Ma adesso era cambiato. Più magro. Più pallido. Più cattivo.

Lei si alzò in piedi, e incrociò le braccia sul petto, come per opporre una barriera che potesse proteggerla. L'avrebbe resa invisibile, e loro l'avrebbero lasciata stare.

«No, sta cercando sua mamma che è scappata via» disse Liesa Perry, che una volta aveva speso ventitré dollari per un ombretto blu di Chanel. Lo portava anche adesso, anche se il resto della faccia era smunto e terreo.

«L'hai rubato quel vestito, Jeannie? Direi proprio di sì. Il sussidio di tuo padre basta a malapena per la birra» disse Jackie Wyatt, che in seconda media aveva scritto sulla lavagna: «JEAN RIZZO NON RIESCE NEANCHE A REGALARLA!». I bei capelli neri di Jackie erano spariti, e Jean si domandò se in quel bosco non fosse per caso incappata nella verità: i ragazzi fichi erano dei mostri.

«No» bisbigliò Jean. La bocca di Liesa era vermiglia, ma non era rossetto. Jean fece un verso. Una sorta di ansimo. Poi incespicò in qualcosa di tiepido e resistente. Girò sui tacchi. Il camice da ospedale era aperto.

Guardò in ogni direzione, ma non c'era posto dove fuggire. Poteva mettersi a urlare? Forse la squadra di ricerche poteva sentirla? Il pazzo cominciò a battere le mani.

Dapprima, non sentì nulla. Ma poi riconobbe quella sensazione familiare. Uno dei ragazzi alle sue spalle le strappava i capelli uno per uno. Intuì che era Justin, perché l'aveva torturata così ogni giorno per dieci anni. «Secondo me quel vestito da puttanella l'hai rubato» lo sentì sussurrare. «Ti meriti un castigo.»

L'istinto prese il sopravvento. Sferrò un pugno. Colpì il buco fradicio nel ventre dell'uomo nudo. Ritirando la mano la vide completamente rossa. Lui sputò sangue dalla bocca e cadde in ginocchio. Lei colse l'attimo. Si mise a correre.

Non arrivò lontano. Justin la afferrò per le spalle. Lei cadde all'indietro.
Se piangi e ti lagni, che differenza fa? Sorridi e il mondo ti sorriderà
,
pensò lei.
Forza, Trojans!
La trascinò nel fango e lei si dibatté finché tutti, persino l'uomo, la circondarono immobilizzandola a terra.

«Sccc...» disse lei, forse intendendo
stronzi
,
o forse un'implorazione per placarli, perché almeno questa volta la lasciassero in pace.

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