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Authors: Gianluca Morozzi

Blackout (6 page)

BOOK: Blackout
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«Ma il proprietario?» l’aveva incalzato Tomas. «Si sa chi è il proprietario?»

Il ragazzo aveva ridacchiato di nuovo, si era guardato intorno. Il negozio era vuoto, nessuno li ascoltava.

«Guarda» aveva suggerito piano, «secondo me, o è rubata o il proprietario è schiattato, non lo so, fossi in te verrei qua di notte con un seghetto e me la porterei via, ci togli la targa, ce l’hai un amico che fa il meccanico?»

E si era rimesso a leggere la rivista di grind metal, con il leccalecca in bocca e i piedi sulla cassa.

Alle cinque di quella stessa notte, Tomas era comparso come un fantasma in via del Borgo. Con l’amico Culodigomma Famoso Meccanico, cosı̀ battezzato per la canzone di De Gregori, armato di tutti gli strumenti del mestiere.

Pochi giorni nell’officina di Culodigomma, e la vespetta arancione era nuova e splendente.

La vespetta arancione scende giù per lo scivolo del garage. Nel ventre scuro del palazzo bianco.

Sotto venti piani bruciati dal sole.

Tutto aveva iniziato a rotolare velocissimo una notte di inizio agosto, quando la corda si era spezzata, quando lui e Francesca avevano fatto il salto giù per la rupe, l’elastico si era teso allo spasimo e non era stato più possibile tornare indietro. Non avevano potuto fare altro che andare incontro all’oceano insieme, abbracciati, lontani da tutto, lontani da tutti.

Tomas dormiva sempre col cellulare acceso accanto al cuscino, pronto a rispondere ai messaggi di Francesca o ai collaudati codici di squilli.

Quella notte lei gli aveva telefonato alle due e mezzo. Disperata, stravolta.

Scagliato di forza fuori dal sonno, Tomas ci aveva messo qualche secondo a distinguere delle parole tra i singhiozzi.

«Basta, basta, basta» stava dicendo Francesca, «mi butto dalla finestra, mi butto dalla finestra... basta, è troppo, è troppo. »

Tomas era scattato a sedere sul letto. L’elettricità gli aveva drizzato i peli sulla schiena, sinuosa come un serpente.

«Stai calma» aveva iniziato a ripetere come un nastro rotto, «stai calma, stai calma, adesso vengo da te, vengo da te, aspettami, mi vesto, salto sulla vespa, prendo un treno, vengo a Parma, stai calma, stai calma.» E lei aveva continuato a singhiozzare: «No, no, mi butto cosı̀ finisce tutto, mi butto che cosı̀ finisce tutto, è troppo, è troppo». E lui di nuovo: «No, no, vengo da te, stai calma, stai calma, vengo da te». E lei: «È troppo, è troppo, non ce la faccio più, non ce la faccio più».

Alla fine non c’era stato bisogno di saltare sulla vespa, e poi su un treno, e poi fino a casa di Francesca. Era bastato restare stretti e allacciati per tutta la notte, distanti e vicinissimi, aggrapparsi l’uno alla voce dell’altra, lasciar disperdere la tenebra, aspettare insieme il sole.

Lui era anche riuscito a farla ridere, intorno alle cinque del mattino. Un riso misto a pianto, va bene, ma intanto il peggio era passato. La notte, per quella notte, era finita.

Ma la corda tesa troppo a lungo si era spezzata, una volta per tutte.

E Tomas e Francesca avevano iniziato a progettare la fuga.

«Queste due corsie ci porteranno ovunque vogliamo andare» diceva quella canzone di Bruce Springsteen, quella che il cugino grande di Tomas gli aveva messo davanti agli occhi. «Salta su, prendi le mie mani, tienti stretta» diceva la canzone.

Andarsene, dovevano andarsene, scappare via, «questa città è una trappola mortale» diceva quell’altra canzone, «questa città ti strappa le ossa dalla schiena, un giorno troveremo quel posto dove vogliamo veramente andare e cammineremo nel sole» diceva, «ma fino ad allora vagabondi come noi sono nati per correre», andarsene, andarsene, scappare via, via, via.

La domenica di ferragosto, avevano deciso. La domenica di ferragosto era perfetta.

I genitori di Tomas erano a un campus estivo new age, un corso di autostima con camminata finale sui carboni ardenti. Non sarebbero tornati prima di martedı̀.

Tomas avrebbe lasciato un biglietto prima di andarsene, si sarebbe scusato per aver rubato i soldi dal cassetto, tra le altre cose. I suoi lo avrebbero capito e perdonato, magari. Pieni di buone vibrazioni come sarebbero stati, senza dubbio, dopo il campus estivo con camminata sui carboni ardenti.

I genitori di Francesca, quella sera, andavano a cena dal fratello dell’ex supermaxieroe. Ufficialmente per riallacciare certi rapporti che erano stati parecchio tesi, negli ultimi anni. In realtà per chiedere un prestito a questo zio, proprietario di due ristoranti e vicino all’apertura del terzo.

Il piano era perfetto.

Tomas sarebbe salito sull’interregionale delle otto, alle otto e cinquantaquattro sarebbe sceso a Parma, dove già ci sarebbe stata Francesca. Pronta a saltare con lui sul treno delle nove e venticinque, il treno che li avrebbe portati via.

Francesca avrebbe lasciato anche lei un bigliettino ai genitori. L’avrebbero trovato di ritorno dalla cena con lo zio, subito dopo essersi visti negare un prestito - non c’erano dubbi in proposito -, i nervi a fior di pelle, acidi e agitati. Ragione ulteriore per fuggire, andare, andare via, con quattro soldi, anche senza una meta. Una volta lontani dal veleno che in modo diverso li stava facendo morire, insieme, qualche posto l’avrebbero trovato.

Tomas lascia la vespa in garage. Fa per chiudere il portellone. Si ferma.

Potrebbe non vederla più per un bel po’, la sua vespa. Potrebbe anche essere l’ultima volta che la vede.

Ha deciso di andare in stazione in autobus. O a piedi, addirittura. Non ha intenzione di lasciar morire la vespa fuori dalla stazione, di abbandonarla al suo destino. Meglio un autobus estivo che non passa mai. O un’ora e mezzo a piedi sotto il sole.

Non ce la fa ad aspettare tutte quelle ore in casa, in attesa di saltare sul treno delle otto. È capacissimo di uscire una mezza vita prima del necessario, di camminare fino alla stazione, con la sacca da viaggio in spalla. Tutto, pur di accorciare l’attesa.

Sospira, guarda la mitica vespa forse per l’ultima volta.

Torna in garage, accarezza il telaio arancione, dice: «Ciao vecchia, comportati bene, non fare niente che io non farei».

Poi, lentamente, con un po’ di tristezza, richiude il portellone.

Sale la scala di pietra che porta all’atrio, ripensa al viso deliziosamente asimmetrico di Francesca, a come sarà bella quando salirà sul treno, alla stazione di Parma.

A quel pensiero, i suoi piedi decollano.

Perché è il giorno più importante della sua vita, questo. Poche ore di attesa, poche ore da far passare in qualche modo.

Sta per levitare fino all’ascensore, euforico, leggero, quando scorge con la coda dell’occhio una ragazza fuori dal portone. Armeggia con le chiavi, ha un’uniforme da barista o qualcosa del genere. La conosce, è quella del diciannovesimo piano, quella con la bocca minuscola e gli occhioni enormi. Quella che sua madre sostiene essere lesbica al cento per cento.

Tomas sta per tirare dritto, ma è talmente felice e leggero che ha un momento di galanteria. Le apre il portone.

E sorride.

Tomas odia stare in ascensore con gli estranei. Sta quasi per imboccare le scale e farsela a piedi, ma poi ci ripensa. «La ragazza crederà che sono un cafone e che rifiuto la sua compagnia, che figura ci faccio?» si domanda pieno di vibrazioni galanti e gentili, un perfetto sincronizzato piccolo lord.

E rimane ad aspettare con la presunta lesbica. «Pochi secondi in ascensore» pensa, «che sarà mai.»

Stanno aspettando l’ascensore, lui e la probabile lesbica dai capelli verdi, quando il portone si apre di nuovo e vomita un tizio dalle basette assurde.

Che smozzica un «Buongiorno» faticato e controvoglia, e aspetta, pure lui.

L’ascensore arriva. Le porte si aprono.

Tomas continua a fare il galante e il gentile. Sta per vedere la sua vecchia vita nello specchietto retrovisore, sempre più piccola e lontana, è pieno di adrenalina, è felice.

Fa passare la ragazza per prima, poi entra, seguito dall’uomo dalle basette assurde.

Le porte si chiudono.

L’ascensore comincia a salire.

ZERO

L’ascensore è un modello Skylark 2000. Quattrocentonovanta chili di portata massima, una capienza di sei persone.

Le pareti della cabina sono di acciaio inossidabile satinato.

L’ascensore ha appena superato il primo piano.

Claudia finge di cercare le chiavi. Ha la gola che sembra carta moschicida, non lo sopporta più, quel caldo melmoso che brucia i polmoni.

Appena entrata in casa schizzerà in cucina, aprirà il frigorifero, riempirà un bicchiere di acqua gelata, lo vuoterà in un sorso. Poi riempirà di nuovo il bicchiere, questa volta di tè freddo. Berrà di nuovo in un sol sorso.

Risolta la priorità della sete, potrà togliersi finalmente l’uniforme. Resterà mezz’ora sotto la doccia. È sudata, appiccicosa, non vede l’ora di sentirsi scorrere l’acqua sulla pelle.

Dopo la doccia controllerà la posta elettronica. Magari Bea ha avuto dieci minuti di tempo per scrivere una mail dal Marocco. Magari.

Pochi secondi ancora e sarà in casa, Claudia.

Che intanto finge di cercare le chiavi, come sempre si fa per non incrociare sguardi estranei in ascensore.

L’ascensore ha appena superato il secondo piano.

Lo Skylark 2000 dispone di un sistema di illuminazione indiretta verticale.

La luce proviene da tubi fluorescenti con diffusore in plexyglas nel pannello di comando della bottoniera.

La bottoniera è in lamiera plastificata bianca.

L’ascensore ha appena superato il terzo piano.

Tomas finge di leggere la targhetta sulla parete opposta alla bottoniera.

Studia per finta i dati tecnici sulla capienza e sulla portata dell’ascensore, e intanto pensa: «Un maglione, dovrei infilare un maglione nella sacca da viaggio, chissà dove saremo quest’inverno io e Francesca, a Londra, magari. E va bene che il freddo è un concetto astratto, in estate, quando si vive in una fornace com’è Bologna a ferragosto, ma un minimo previdenti bisogna essere» si dice Tomas, fingendo di leggere la targhetta e i dati tecnici sulla capienza e sulla portata.

Tomas non è mai stato in Inghilterra, ma ricorda bene il clima dell’Irlanda, la pioggerella, l’umidità. Era sempre mezzo malato in Irlanda, col naso che colava e il pizzicore in gola. «Dove sarà il maglione? Dove la tiene, mia madre, la roba invernale?» si domanda. «E poi l’orologio, dovrò portarmi dietro un orologio.» Tomas non porta mai l’orologio, ma ha un treno da prendere, degli orari da rispettare, non vuole rischiare di perdere il treno per la sua idiosincrasia verso gli orologi al polso.

Cerca le chiavi nella tasca dei jeans, proprio come sta fingendo di fare la ragazza dai capelli verdi pochi centimetri più in là.

Le sfiora tutte con le dita. La chiave di casa. La chiave del portone. La chiave della vespa. La chiave del garage. La chiave lunga della cantina, enorme e ingombrante nella tasca. Quella su cui Francesca aveva scherzato, una volta, con inedita malizia.

«Sembra un’altra cosa», aveva ridacchiato, fissando quella chiave in rilievo sotto la tela dei jeans.

«Come?» era arrossito Tomas, colto di sopresa.

«Niente» aveva glissato lei maliziosa, nel bel mezzo del parco Ducale, in una splendida giornata di primavera.

Pochi secondi ancora e sarà in casa, Tomas. Che intanto finge di interessarsi ai dati tecnici sulla targhetta.

L’ascensore ha appena superato il quarto piano.

La cabina è alta due metri e venti, dal pavimento in lamiera d’acciaio ricoperto in gomma a bolle fino al cielino in acciaio bianco sopra le teste dei passeggeri.

La porta automatica ha due pannelli scorrevoli in lamiera d’acciaio. È rivestita in acciaio inossidabile satinato.

L’ascensore ha appena superato il quinto piano.

Ferro ha lo sguardo fisso sulle cosce della ragazza dai capelli verdi, generosamente lasciate scoperte dall’uniforme.

Belle gambe.

Un po’ bassa per i miei gusti, un po’ piatta sul davanti, comunque ha delle belle gambe. Quell’uniforme la conosco. Mi sa che lavora in quel bar del centro, come si chiama, ci sono stato col Dentista in quel bar in centro, come si chiama, quel bar in centro?

Nella sua testa, Elvis sta cantando
Bridge over Troubled Water
sul palco di Las Vegas.

Altro che quei due frocetti con le vocine, altro che Simon & Garfunkel. Elvis si è impadronito della loro canzone, l’ha masticata e risputata fuori, altro che quei due frocetti con quelle vocine, bah. Elvis, la loro melodia l’ha forgiata nel cuore, l’ha plasmata nella gola e l’ha restituita al mondo, rimodellata e incandescente.

Pochi secondi ancora e sarà nel suo vecchio appartamento da scapolo, Ferro. Che intanto guarda apertamente le cosce della ragazza dai capelli verdi.

L’ascensore ha appena superato il sesto piano.

Lo Skylark 2000 misura un metro e trenta in profondità, novantacinque centimetri in larghezza.

Lo Skylark 2000 ha appena superato il settimo piano.

Tomas e Claudia trovano contemporaneamente le rispettive chiavi di casa, le isolano con le dita dalle altre del mazzo. L’ascensore ha appena superato l’ottavo piano.

Anche Ferro cerca la chiave di casa. È proprio in fondo alla tasca, vicina al coltello a serramanico.

L’ascensore ha appena superato il nono piano.

Ha una voglia pazzesca di fumare, Ferro. Ha il pacchetto di sigarette e lo Zippo nel taschino della camicia.

Appena entro in casa mi faccio una paglia. Prima bevo un bicchier d’acqua, che sto crepando di caldo e ho la camicia incollata alla schiena, cazzo, poi mi fumo una paglia.

Lo Skylark 2000 ha appena superato il decimo piano.

Alle 17:03, lo Skylark 2000 ha appena superato l’undicesimo piano.

Quando, di colpo, in cabina si spengono le luci.

E l’ascensore si ferma.

Tra l’undicesimo e il dodicesimo piano.

BOOK: Blackout
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