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Authors: Gianluca Morozzi

Blackout (9 page)

BOOK: Blackout
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«Al tre» lo autorizza Ferro. «Uno. Due. Tre».

E al tre esplodono un «Ooooh!» collettivo che rimbomba tra i pannelli di acciaio, seguito da qualche urlo individuale.

Claudia grida: «Siamo qui!»

Tomas aggiunge: «C’è nessuno?»

Ferro li coordina: «Di nuovo insieme. Al tre. Uno. Due. Tre».

Lanciano altri due «Ooooh!» collettivi, perfettamente sincronizzati.

Poi ritornano ad aspettare, in silenzio.

17:39

Ferro appoggia la schiena alla parete di acciaio inossidabile, le porte alla sua sinistra, la bottoniera di fronte. Ha le braccia conserte, gli occhi fissi sulle punte delle scarpe. Riflette.

Ragioniamo. Stiamo calmi e ragioniamo.

Questa è una di quelle situazioni che possono tenerti in un limbo a tempo indeterminato, ma anche sbloccarsi di colpo, senza preavviso. Un attimo prima bestemmi perché l’Eurostar è fermo sotto il sole, l’aria condizionata non funziona, i finestrini sono bloccati, non c’è acqua e ti senti al centro esatto dell’inferno. Un attimo dopo il treno torna in vita, si riparte, e la frustrazione da immobilità forzata diventa un vago ricordo.

Magari tra un minuto ci si muove, questo verde da acquario sfuma in un normale bianco da ascensore, e quaranta minuti di sospensione delle nostre esistenze vengono degradati allo stadio di seccatura irrilevante.

Però, siamo realisti.

Può anche darsi che non si sblocchi cosı̀ in fretta, la situazione. È il caso che cominci a considerarlo. Potresti passarci un’ora, o anche due, in questo cazzo di ascensore. Con i cellulari impazziti. Con l’allarme che probabilmente non funziona. Con la fantomatica gattara e l’altrettanto fantomatica coppia hippy che non ci sentono gridare.

E nessuno, cazzo, nessuno che in quaranta minuti si sia accorto che c’è un ascensore fermo tra due piani.

Allora, realisticamente: può darsi che tra un minuto si esca, ma intanto fai buon viso a cattivo gioco. Come diceva il Dentista?
Trasforma il fango in oro.

La ragazza è piccolina e piatta sul davanti, d’accordo. Bella non è bella, con quei capelli verdi ispidi, quel faccino affilato da lince. Però ha delle gambe niente male. E un vestitino da stupro nei giardinetti.

E allora, cazzo, trasformiamo il fango in oro!

Cominciamo lo show!

Ferro si stampa sulla faccia un sorrisetto sardonico e sicuro. Squadra Tomas, fermo e zitto, schiacciato contro la parete al lato opposto della cabina. In mezzo a loro Claudia sta cercando di sedersi nel senso della larghezza, incastrando le gambe nel poco spazio a sua disposizione

«Bella maglietta» osserva Ferro, parlando molto lentamente. «Ti piace Bruce Springsteen? È il tuo idolo, Bruce Springsteen, è il tuo cantante preferito?»

Tomas si riscuote, alza la testa. «Sı̀. Cioè, mi piace
Born to Run

Ferro si gratta la coscia, proprio sotto il coltello a serramanico in fondo alla tasca. «È uno a posto, Bruce Springsteen. È uno che conosce le giuste proporzioni tra il maestro e l’allievo. Sai qual è invece il
mio
cantante preferito?»

«Elvis» interviene Claudia abbracciandosi le ginocchia. «Ho tirato a indovinare, eh.»

«Chiaramente» sorride Ferro. «Sai quante canzoni di Elvis ha rifatto, Bruce Springsteen? Un sacco.
Good Rockin’ Tonight
.
Viva Las Vegas
.
Can’t Help Falling in Love
.
Follow that Dream
... Io colleziono tutti i pezzi di Elvis ripresi da altri artisti, tutte le versioni, anche le più irrispettose e degradanti. Il tuo Bruce Springsteen non ha la voce di Elvis, d’accordo, nessuno ha la voce di Elvis, però si sente che canta quelle canzoni con rispetto. A me piace vedere il rispetto nei confronti dei maestri. E poi lo sai, no, che Bruce Springsteen ha scavalcato il cancello di Graceland per incontrare Elvis?»

«Non lo sapevo» ammette Tomas, che intanto pensa. «Surreale, veramente surreale. Stiamo facendo conversazione come fossimo in fila all’ufficio postale, parliamo dei nostri miti musicali anziché gridare o cercare un modo per uscire da qui, che alle otto ho un treno che mi parte, cazzo.»

«Lo so io e non lo sai tu» ridacchia Ferro. «Allora te la riassumo. Il tuo amico Bruce ha scavalcato il cancello di Graceland per incontrare Elvis. È stato bloccato da un guardiano, e allora ha dovuto spiegare al guardiano chi era e cosa voleva, capisci? Era già famoso, ma ha accettato di farsi trattare come l’ultimo dei fan molesti per incontrare il suo idolo. Per questo dico che lo rispetto, il tuo amico Bruce.» Poi cambia tono, mormora come un vecchio precettore: «Se mai avrò un figlio, non lascerò mica che cresca ascoltando robaccia radiofonica preconfezionata. Se mai avrò un figlio, gli farò ascoltare il Re. Lo farò crescere con la musica giusta».

«Non ha figli, lei?» indaga Claudia.

Ferro mostra orgoglioso l’anulare sinistro. «Niente figli. Niente moglie. Niente fede» che infatti la fede se l’è tolta già in macchina, mentre correva a marcare la barista del Pink Cadillac, «sono libero come un tenero uccellino. Mi piace godermi la vita senza vincoli, senza legami» e dopo il colpo alla botte, rifila il colpo al cerchio «ma ho sempre il cuore pronto per l’amore. Io mi innamoro tutti i giorni, sull’autobus, al bar, per la strada. Una volta o l’altra sarà quella buona, magari.»

E festeggia questo cumulo di cazzate sfilando una sigaretta dal pacchetto. L’ha appena stretta tra le labbra, quando nota lo sguardo severo di Claudia.

«Mi scusi» scandisce la ragazza. «Sarebbe meglio non fumare, qua dentro. Non c’è aria.» E aggiunge mentalmente: «Povero idiota».

Ferro la squadra con un’espressione indecifrabile, la sigaretta stretta tra i denti. Poi conviene: «Già. Non è una buona idea». Rimette la sigaretta nel pacchetto, il pacchetto nel taschino della camicia.

«Ci mancava solo questa» pensa Claudia, «che già non si respira, manca l’aria, si muore di caldo, merda. Avrei voglia di fumare anch’io, cazzo, mi viene voglia di rimettermi a fumare, a stare qua dentro. Proprio adesso che ce l’avevo fatta a smettere. Ce l’avevo fatta, e adesso sono qua, chiusa nell’ascensore, e ho tremendamente bisogno di una paglia. Di un bicchier d’acqua, e di una paglia. Mi sembra di essere quel personaggio dell’
Aereo più pazzo del mondo
, quello che diceva ’Ho scelto il momento sbagliato per smettere di fumare’. Merda.»

Ferro ritorna svelto in sella, dopo lo scivolone della sigaretta. Deve cavalcare la tigre, tenere l’attenzione fissa su di sé.

«Vi ho detto che possiedo tre locali?» esclama, parlando a macchinetta. «Tre locali che al Re sarebbero piaciuti, sissignore. Abbiamo dovuto fare qualche concessione al barbarico gusto imperante, va bene, dove ci sono degli investimenti poi ci devono essere dei ritorni, ovvio, non siamo mica un’associazione benefica, diamo alle masse la musica che piace alle masse, un po’ di commerciale, un po’ di sudamericana, sono pur sempre locali di intrattenimento. Però c’è sempre qualche tocco personale, qualche zampata di classe, per dire, siete mai stati al Pink Cadillac?»

Tomas riflette, risponde poco convinto: «Mah, una volta, mi pare».

«Be’, è mio. Dovete proprio venirci, c’è una piscina rosa a forma di cadillac, la riempiamo di schiuma e ci facciamo ballare la gente. Diventano matti, sapete? Va di moda, il ballo nella schiuma. A settembre riapriamo il Graceland e il Memphis, dopo la chiusura estiva si riparte alla grande, abbiamo un sacco di idee, a proposito, mi presento, Aldo Ferro.»

«Tomas.»

«Claudia.»

«Claudia» si ripete Ferro sbirciando abilmente nella sua scollatura. «Dov’è che portano quelle uniformi? Come si chiama quel bar, quello in pieno centro?»

C’era andato col Dentista in quel bar, ne è sicuro. Si erano seduti a un tavolino d’angolo per l’aperitivo, e mentre sorseggiavano l’aperitivo il Dentista gli aveva nominato un discografico, uno famosissimo. Aveva elencato qualche disco prodotto da questo discografico famosissimo, tutti dischi schifosamente noti e commerciali.

Poi il Dentista aveva abbassato ulteriormente la voce: «Lo sai?» aveva sussurrato. «Anche a lui piace girare qualche filmino.»

«Al discografico?» si era stupito Ferro.

«Già» aveva sogghignato il Dentista. «È uno timido, li gira solo nella sua villa e con attori consenzienti, però» aveva aggiunto finendo l’aperitivo, «sarà anche timido ma ha una strasorca di moglie» e aveva continuato, sghignazzando: «Si dice anche che abbia un dobermann ben addestrato, la strasorca.
Molto
ben addestrato.»

Avevano riso sguaiati, prima di avventurarsi in truci commenti sulle divise delle bariste. Poi avevano fatto i complimenti al proprietario del bar, come si chiamava quel bar?, il Vivandiere, il bar del Vivandiere.

«Tu, Claudia, lavori da Enzo? Lo conosco, Enzo. Lavori lı̀, vero?»

Claudia rabbrividisce, d’istinto.

Il Porco. Grazie per avermi ricordato che esiste, il Porco. Che la giornata non era già abbastanza schifosa così.

«Sı̀» risponde a denti stretti. «Solo per l’estate. Per pagarmi la retta universitaria.»

«È un grande, Enzo. Salutamelo.»

Claudia storce la bocca, ricaccia indietro la smorfia disgustata. «Presenterò.»

«Ci andavo con un mio amico, al Vivandiere. Adesso è morto, il mio amico. Brutta storia. Ci piacevano un sacco le divise delle bariste» e ammicca a Tomas, per automatica intesa virile. «Che anche l’occhio vuole la sua parte, e il vecchio Enzo lo sapeva, come si gratifica l’occhio del cliente. Eh, un grande, il vecchio Enzo.»

«Già» brontola Claudia, cupissima, seria in viso.

Ora la voce di Ferro rimbomba, tra le pareti grondanti sudore, sinistra, sgradevole. «Se fossi il tuo fidanzato» dice «eh, eh, se fossi il tuo fidanzato, non ti lascerei mica andare in giro con quell’uniforme. Ti chiuderei in casa a doppia mandata, piuttosto che mandarti in giro cosı̀.»

Claudia inarca un sopracciglio. Ci mette un po’ a elaborare una risposta ragionata e non troppo palesemente irritata, e alla fine sibila: «Ci lavoro soltanto, con questa cosa addosso. E non fornisco motivi di gelosia. In nessuna situazione».

Neutra, precisa. Brava. Non è un cliente. Puoi anche permetterti di essere un po’ sgarbata, se vuoi. Che cazzo.

«Be’» insiste Ferro, «valà, se fossi il tuo fidanzato, non ti farei andare in giro mezza nuda. Sicuro.» La luce verde cupo scava strane ombre sul suo viso. Adesso respira pesantemente, come un orso.

Claudia scandisce seccamente le parole: «Non c’è motivo. Di essere. Gelosi». E aggiunge, dopo una pausa: «Nessun motivo».

Tomas funge da spettatore al dialogo tra i due, in fondo alla cabina, a meno di mezzo metro da Ferro, a pochi centimetri da Claudia. Sottilmente inquieto.

Ha l’impressione che le pareti stiano richiudendosi. Su di lui. Quelle pareti cosı̀ vicine. Cosı̀ strette. Chiude gli occhi. Cerca di pensare ad altro, a Francesca, ad Amsterdam, a qualunque cosa.

Ferro squadra Claudia con la sua faccia di quarzo.

Per alcuni secondi lunghissimi.

Poi la tensione sul suo viso si allenta, le ombre si sciolgono nel morbido verde. Alza le mani in segno di resa e sogghigna: «Okay, okay, hai vinto».

Poi tace. Si appoggia alle porte.

Stai calmo, stai calmo, controllati. Ci sono delle priorità, rispetta le priorità.

Non ci sarebbero problemi se fossimo soli in ascensore, io e la ragazzina con i capelli verdi. La situazione sarebbe ideale, me la farei qui dentro, in piedi, nell’ascensore fermo. Che la tensione le fa eccitare ancora di più, ’ste troie.

Mica avrei problemi, sono ancora bello carico, mica mi ha steso, la tripletta con Sonja. Quarant’anni di gloria, sempre pronto, lancia in resta e colpo in canna. Altro che quegli sfigatini tipo il ragazzo col piercing, con quel fisichino miserabile, figuriamoci, se prova a farsi una sega sviene. Che dice di essere fan di Bruce Springsteen, lo sfigato, e nemmeno conosceva l’aneddoto su Graceland. Bah.

Vorrei vederlo sotto il torchio di una come Sonja. Non saprebbe neanche cosa combinarci, quello lì, con un aspirapolvere come Sonja.

Se fossimo soli in ascensore, io e la tipina, non ci sarebbero problemi. Sicuro.

Solo, appunto, c’è anche lo sfigato.

E io mi devo comportare bene.

Mica posso tirar fuori il coltello qua dentro. Quando verranno a tirarci fuori, dovrò uscire dall’ascensore come un cittadino modello e irreprensibile, un anonimo vicino di casa. Mica posso sputtanarmi, mica si può indagare su quello che c’è nel mio appartamento. Mia moglie neanche lo sa che ho un appartamento in questo palazzo. Non lo sa, e deve continuare a non saperlo.

Devo essere integerrimo, pulito e irreprensibile. Uno che ha avuto la sfiga di restare chiuso in ascensore per un’ora o due, che volete che sia, non si va sui giornali o al tg per una cosa simile. Quindi, mica posso usare il coltello.

E poi non mi piacerebbe, farla cedere con il coltello. Per andare con una donna, Aldo Ferro non ha mai avuto bisogno del coltello.

Al massimo, se la situazione si prolunga, chiedo al ragazzino di voltarsi dall’altra parte. Intanto che io e la barista ci facciamo un tango.

Se vuole ci guarda, il ragazzino. Cosı̀ apprende l’uso corretto dei ferri del mestiere.

Oppure potrei limitarmi a gettare le basi, con la ragazzina dai capelli verdi.

Così, appena usciamo dall’ascensore, congediamo civilmente il ragazzino e la barista mi invita in casa sua eccitata come una farfalla.

Intanto, però, devo tenere a mente la direttiva primaria. E la direttiva primaria è: uscire di qua intonso e irreprensibile. Pronto a tornare da Alex.

Che mi aspetta buono e paziente nella baracca. Guardando il mondo da quella che una volta era la sua bocca.

«Nessuno ha dell’acqua?» boccheggia Ferro, con la lingua di fuori come se fosse sul punto di soffocare. Tomas allarga le braccia. Claudia risponde: «Io ho solo dei biscotti».

«Niente acqua» scherza Ferro. «Ragazzi, se non ci tirano fuori in fretta, con ’sto caldo ci ridurremo a bere le nostre urine.»

«Che schifo» sorride nervosamente Claudia, e stirare i muscoli della faccia in quel sorriso le costa una fatica terribile. Ferro non le piace, lo trova istintivamente ripugnante. Ma con quell’uomo ripugnante deve conviverci forzatamente, in attesa dei soccorsi. E se deve conviverci forzatamente, si dice, è inutile farsi il sangue cattivo e alzare un muro a ogni sua parola. È meglio collaborare per uscire da quella situazione, si dice.

BOOK: Blackout
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