Gai-Jin (37 page)

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Authors: James Clavell

Tags: #Fiction, #Action & Adventure

BOOK: Gai-Jin
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Senza guardarlo sussurrò: “Smettetela di sorridere, stupido idiota!”.

E senza quasi riprender fiato aggiunse con durezza: “Johann, dite loro che avranno la mia risposta fra tre giorni.

Nel frattempo voglio l'indennizzo in oro, sempre fra tre giorni, per un valore pari a diecimila sterline quale risarcimento per le famiglie del sergente e del caporale assassinati in questa Legazione l'anno scorso, indennizzo già richiesto quattro volte!”.

Quando il suo discorso venne tradotto lesse la costernazione sul volto del samurai più anziano. Segui un altro interminabile scambio tra questi e l'ufficiale della Bakufu.

In tono stanco Johann disse: “Il vecchio risponde come al solito che quello “sfortunato incidente” fu causato da un impiegato della Legazione che poi fece seppuku, si suicidò. Non è responsabilità della Bakufu.

“ Non meno stanco di lui sir William ribatté: “Rispondetegli come al solito che, per Dio, furono loro ad assumerlo, loro a insistere perchè lavorasse da noi e che sono pertanto responsabili; inoltre si tolse la vita soltanto perchè era stato gravemente ferito nel tentativo di uccidere il mio predecessore e quindi sarebbe stato catturato immediatamente!”.

Cercando di scacciare la stanchezza guardò i due ufficiali parlare con il loro interprete e il terzo uomo ascoltare come aveva fatto per tutto il pomeriggio.

Magari è lui quello con il potere decisionale.

Cos'è accaduto a quell'altro che c'era ieri, il giovane, l'uomo a cui André Poncin si è avvicinato all'uscita? Che cosa sta tramando quell'infido bastardo di Seratard?

Il vento sempre più freddo fece sbattere un'imposta contro la finestra. Una delle sentinelle si sporse sul davanzale per bloccarla. La flotta era poco lontano, e ora l'oceano era scuro scuro e coperto di schiuma bianca. Sir William notò il temporale che si delineava all'orizzonte e la sua ansia per le navi aumentò.

Johann disse: “Il vecchio chiede se ne accettate tremila”.

Sir William divenne paonazzo. “Diecimila e in oro!” Altri discorsi e infine Johann parlò asciugandosi il sudore dalla fronte.

“Mein Gott, d'accordo per diecimila che verranno pagate in due rate: a Yokohama tra dieci giorni la prima parte, la seconda il giorno dell'incontro a Edo.”

Dopo una pausa volutamente drammatica sir William disse: “Comunicherò loro fra tre giorni se l'offerta è accettabile”.

I giapponesi trattennero un'altra volta il respiro, poi diedero il via ad alcuni tentativi per far diventare i tre giorni trenta, poi dieci, otto ma sir William fu irremovibile. “Tre.”

Inchini cortesi e la delegazione uscì.

Una volta rimasti soli Johann si abbandonò alla contentezza.

“E' la prima volta che facciamo un progresso simile, sir William, la primissima volta!”

“Sì, bene, staremo a vedere. Solo che io non li capisco affatto. E' ovvio che stavano cercando di stancarci. Ma perchè? Che cosa ci guadagnano?

Avevano già il rotolo in tasca, dunque perchè diavolo non darmelo subito ed evitare tutte quelle stupide perdite di tempo? Mucchio di idioti! E perchè poi mandare due palanchini vuoti?” Phillip Tyrer disse allegramente: “Mi sembra che l'ambiguità sia una delle loro caratteristiche, signore”.

“Sì, a proposito, Tyrer, venite con me per favore.” Lo condusse nel suo ufficio privato e quand'ebbe chiuso la porta disse: “Ma al Foreign Office non vi hanno insegnato proprio niente? Siete completamente impazzito?

Non avete abbastanza buon senso per capire che a un incontro diplomatico bisogna restare impassibili? Vi è andato in fumo il cervello?” Tyrer rimase annichilito di fronte a quello scoppio di collera. “Mi dispiace, signore, mi dispiace molto, signore. Ero così contento per la vostra vittoria che...”

“Non è stata una vittoria, idiota! E' stata soltanto una soluzione temporanea, anche se mandata dal cielo, per rimandare il problema!”

Il sollievo che sir William provava per la fine di quell'incontro, durante il quale aveva ottenuto molto più di quanto avesse sperato, lo rendeva ancora più irritabile. “Avete le orecchie piene di muffa?

Non avete sentito la frase “ciò che si ritiene una giusta lamentela”, insomma la scappatoia più comoda che ci potessero lasciare, per Dio! Abbiamo ottenuto di rimandare, tutto qui, ma tanto mi basta e se fra trenta giorni a Edo avrà luogo l'incontro di cui hanno parlato ne resterò molto stupito.

La prossima volta non date a vedere i vostri sentimenti per nessuna ragione al mondo, se volete diventare un interprete... Anzi, fareste meglio a imparare il giapponese in fretta altrimenti vi rimetto sulla prossima nave per l'Inghilterra con una nota sul vostro curriculum che vi procurerà un bell'incarico nella terra degli eschimesi per il resto della vostra vita!”

“Sì, signore.”

Ancora furente, sir William vide che il giovane lo fissava senza batter ciglio.

Si domandò che cosa vi fosse di diverso in lui quando l'aveva visto per la prima volta. Poi si rese conto che la diversità era nello sguardo.

Dove ho già visto prima quello sguardo, quello stesso indefinibile senso di estraneità che c'è anche negli occhi di Struan?

Ah si, certo, ora ricordo! Negli occhi dei giovani soldati che tornavano dalla Crimea.

Tutti, i feriti e quelli che se l'erano cavata, alleati e nemici. La guerra ha strappato loro la giovinezza, gli ha tolto l'innocenza con una tale oscena velocità che non saranno mai più gli stessi.

Il cambiamento non si manifesta mai sui loro volti ma negli occhi. Quante volte ho sentito dire: prima della battaglia era un giovane e pochi minuti o poche ore più tardi un adulto: inglese, russo, tedesco, francese o turco, è lo stesso.

L'idiota sono io, non questo ragazzo.

Ho dimenticato che ha soltanto ventun anni e che in sei giorni ha rischiato di essere assassinato e ha vissuto una delle esperienze più violente che possa capitare a un uomo.

E a una donna, per Dio! E' vero, c'era lo stesso sguardo negli occhi della ragazza. Come sono stato stupido a non capirlo prima. Poveretta. Non ha diciotto anni appena? E' tremendo crescere così in fretta. Io sono stato molto più fortunato.

“Bene, signor Tyrer” disse con voce roca invidiando il coraggio con cui era passato attraverso il suo battesimo del fuoco, “sono certo che ve la caverete bene. Questi incontri sono, ecco... sono più che sufficienti per mettere alla prova anche la pazienza di Giobbe, giusto? Penso che adesso ci vorrebbe uno sherry.”

Hiraga aveva faticato a scappare dal giardino e ritornare alla locanda dei Quarantasette Ronin.

Quando vi arrivò scopri con sgomento che il suo gruppo era già partito, diretto al luogo dell'imboscata.

“Uno dei nostri ha riferito che la delegazione era uscita dal castello esattamente come ieri, con gli stendardi di ieri e con cinque palanchini come ieri e quindi abbiamo pensato che il principe Yoshi fosse con loro” gli spiegò Ori.

“Ma eravamo d'accordo che avrebbero aspettato.”

“Hanno aspettato, Hiraga, ma se... se non partivano quando sono partiti non sarebbero mai arrivati sul posto in tempo.” Hiraga indossò in fretta un kimono e raccolse le sue armi. “Ti sei fatto vedere da un dottore?”

“No, la mama-san e io abbiamo pensato che oggi fosse troppo pericoloso. Lo faremo domani.”

“Allora ci vediamo a Kanagawa.”

“Sonno-joi!”

“Vai a Kanagawa! Qui sei in pericolo!” Hiraga scavalcò lo steccato e si gettò tra vicoli e sentieri poco frequentati e lungo i ponti che conducevano al castello. Questa volta fu fortunato e non incontrò nemmeno una pattuglia.

Quasi tutti i palazzi dei daimyo fuori dalle mura del castello erano deserti. Con grande cautela Hiraga passò di giardino in giardino sino a raggiungere le rovine del palazzo del daimyo distrutto tre giorni prima dal terremoto. Come stabilito i suoi compagni erano riuniti per l'imboscata vicino al cancello divelto del palazzo principale che si apriva sulla strada che conduceva alle porte del castello. Anziché undici gli shishi erano nove.

“Hiraga, abbiamo deciso di fare a meno di te!” sussurrò il più giovane e il più eccitato. “Da qui lo uccideremo senza difficoltà.”

“Dove sono i due mori?”

“Morti.” Akimoto, il cugino di Hiraga, si strinse nelle spalle. Il più anziano del gruppo era un giovane corpulento di ventiquattro anni.

“Siamo arrivati qui separatamente ma io ero vicino a loro e ci siamo scontrati tutti e tre con una pattuglia.“

Sorrise.

“Io sono scappato prima in una direzione, poi in un'altra, ne ho visto cadere uno colpito da una freccia. Non avrei mai pensato di poter correre così in fretta. Dimenticati quei due; quando passerà di qua Yoshi?”

La delusione fu enorme quando Hiraga raccontò che la vittima non era nel corteo. “Allora cosa dobbiamo fare?” chiese un bel giovane alto di soli sedici anni. “Questa imboscata è perfetta... Sono passati di qua una mezza dozzina di palanchini che trasportavano importanti membri della Bakufu ed erano quasi senza guardie.”

“E un posto troppo buono per rischiarlo senza motivo” rispose Hiraga.

“Ce ne andremo uno per volta. Akimoto, tu per primo...” Lo shishi di guardia fischiò il segnale di avvertimento. Subito tutti si nascosero, gli occhi incollati alle fessure tra le assi dello steccato rotto.

Un palanchino sorretto da otto portatori seminudi e circondato da una dozzina di samurai con gli stendardi procedeva a circa trenta metri, diretto verso il castello.

Nessuno in vista da nessuna parte.

Riconobbero immediatamente l'emblema: era quello di Nori Anjo, capo del Consiglio degli Anziani.

La decisione fu istintiva: “Sonno-joi!”.

Guidato da Hiraga, il gruppo si precipitò all'attacco come un sol uomo, uccise le prime due file di guardie e si avvicinò al palanchino. Ma nell'eccitazione sbagliarono i tempi di pochi secondi consentendo alle restanti otto guardie, guerrieri scelti, di riprendersi dalla sorpresa.

Nella tremenda confusione che segui i portatori abbandonarono il palanchino e scapparono gridando, quelli che erano sfuggiti al primo violento attacco diedero ad Anjo il tempo necessario per aprire la porta del palanchino e scivolare fuori mentre la spada di Hiraga attraversava il legno morbido perforando il cuscino su cui Anjo era stato appoggiato fino a qualche istante prima.

Imprecando, Hiraga estrasse con violenza la spada dal legno e si girò per pararsi le spalle, uccise il suo antagonista dopo un violento scontro di spade, poi superò con un balzo i pali della portantina per rincorrere Anjo, ormai protetto da tre guardie.

Dietro Hiraga cinque dei suoi lottavano contro quattro samurai, uno shishi era morto, uno giaceva a terra ferito a morte e un altro ancora, assetato di sangue, sottovalutò il suo avversario e inciampò nel corpo di un portatore che piagnucolava ricevendo una terribile ferita al fianco. Prima che il suo assalitore potesse riprendersi uno shishi attaccò la guardia facendogli rotolare la testa nella polvere.

Adesso erano sette contro sei.

All'improvviso Akimoto smise di combattere e si precipitò ad aiutare Hiraga che attaccava Anjo e le tre guardie e stava per essere sopraffatto.

Con una brillante finta Hiraga fece perdere l'equilibrio a una delle guardie e la infilzò, si ritrasse e scartò di lato per attirare le altre due e lasciare ad Akimoto un varco per raggiungere Anjo.

In quell'attimo sentirono un grido d'avvertimento. Dal castello venti guardie si stavano precipitando ad aiutare Anjo.

Un istante di esitazione da parte di Akimoto diede a una guardia il tempo di parare il colpo tremendo che avrebbe ucciso il capo del Roju e gli consentì di arrancare verso i rinforzi. Adesso gli shishi erano in netta minoranza.

Non c'era più alcuna possibilità di raggiungere Anjo! Nessuna possibilità di vincere!

“Ritirata!” ordinò Hiraga e ancora una volta come un sol uomo il gruppo ripeté la manovra provata infinite volte; Akimoto e gli altri quattro abbandonarono i duelli in cui erano impegnati e corsero oltre il cancello, Hiraga li seguiva con il giovane gravemente ferito, Jozan, che arrancava a fatica.

Per un istante le guardie rimasero disorientate da quella fuga improvvisa, poi si ripresero e con i rinforzi si lanciarono all'inseguimento mentre gli altri fermavano Jozan che perdeva sangue da un fianco.

Akimoto condusse la disordinata ritirata attraverso le rovine del palazzo del daimyo, mentre Hiraga aveva i nemici alle costole.

Raggiunse la prima barricata dove Gota aspettava nascosto, poi si fermò all'improvviso e insieme al compagno si girò per contrattaccare: aggredì e ferì mortalmente uno degli inseguitori e ne fece cadere altri due.

Poi ripresero a correre trascinando il nemico con loro. Inciampando sul terreno irregolare attraversarono la breccia nel muro bruciacchiato dove Akimoto e un altro aspettavano per una seconda imboscata.

Senza esitazione i due uccisero il primo inseguitore gridando “Sonno-joi!” mentre gli altri, sbalorditi dall'assalto improvviso si fermavano per riorganizzarsi.

Quando i nemici lanciarono il loro grido di battaglia e scavalcarono di un balzo il corpo del loro compagno per infilarsi nella breccia, Akimoto, Hiraga e gli altri erano scomparsi.

I samurai si sparpagliarono per cercarli sotto un cielo minaccioso e coperto da cumuli grigi.

Di fronte al cancello principale Anjo aspettava circondato dalle guardie.

Cinque dei suoi uomini erano stati uccisi e due gravemente feriti. I due shishi morti erano già stati decapitati. Il giovane giaceva a terra ferito, con una gamba quasi staccata dal busto a cui si aggrappava con disperata sofferenza. Jozan era appoggiato contro un muro. Cominciò a piovere.

Il samurai in piedi accanto al giovane ripeté: “Chi sei? Come ti chiami?

Chi ti ha mandato? Chi è il tuo capo?”.

“Ve l'ho già detto, sono uno shishi di Choshu, mi chiamo Toma Hojo! Io ero il capo! Nessuno mi ha mandato! Sonno-joi!”

“Sta mentendo, signore” disse un ufficiale ansimando.

“Certo” ribatté Anjo in subbuglio.

“Uccidilo.”

“Chiedo rispettosamente che gli sia concesso di commettere seppuku.”

“Uccidilo!”

L'ufficiale, un uomo grande e grosso come un orso, si strinse nelle spalle e si diresse verso il giovane. Offrendo la schiena ad Anjo sussurrò: “Ho l'onore di essere il tuo secondo. Allunga il collo”.

La spada si librò nell'aria e colpì sicura. Prese la testa per i capelli e la presentò ad Anjo come voleva la tradizione.

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