Gai-Jin (133 page)

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Authors: James Clavell

Tags: #Fiction, #Action & Adventure

BOOK: Gai-Jin
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“Se Sua Eminenza sarà d'accordo, sono sicuro che il senhor Seratard accetterà di farvi da tutore, in loco parentis.” Angélique continuava ad avere la gola stretta. “Per quando bisognerà attendere la risposta, l'approvazione di Sua Eminenza?”

“Per Natale, forse anche prima, se il vescovo si trova a Macao e non è in visita ai fedeli cinesi, e se sarà questa la volontà di Dio.” Di solito nel confessionale padre Leo non guardava la grata, ma vi appoggiava l'orecchio per poter meglio ascoltare le parole sussurrate dai penitenti, questa volta invece spiò tra i fori cercando di intravedere la figura di Angélique.

“La questione che desidero discutere, in privato, riguarda la conversione del senhor.” Angélique sussultò ancora. “Vi ha detto di volersi convertire?”

“No, non ha ancora visto la Luce, è di questo che voglio parlare con voi.” Padre Leo si accostò alla grata, eccitato dalla vicinanza di Angélique, in preda a un desiderio che sapeva empio e istigato da Satana, lo stesso contro cui, in ginocchio, lottava giorno e notte da quando era diventato un servo di Dio.

Signore, dammi la forza, perdonami, pensò quasi in lacrime, bramando di uscire e accarezzare quel seno e quel corpo nascosti dalla grata, dallo scialle, dai vestiti e dalla collera di Dio. “Lo dovete aiutare, voi dovete aiutarlo ad abbracciare la Vera Fede.”

Angélique si teneva il più lontano possibile dalla grata. Scostò persino le tende per alleviare il senso di claustrofobia che le provocava quella specie di armadio. I confessionali non mi hanno mai fatto questo effetto, pensò tremando. Solo dopo... dopo quel fatto che non è mai accaduto. “Lo aiuterò, padre, con tutta me stessa” disse sempre più nervosa, e di nuovo si accinse ad alzarsi.

“Aspettate!” La violenza della voce di padre Leo la turbò. “Padre?”

“Per favore... aspettate, figliola” disse lui in un tono falsamente gentile. Angélique ne fu ancora più spaventata poiché quella non era la voce di un sacerdote in un luogo sacro, ma di uno sconosciuto. “Dobbiamo parlare di questo matrimonio e della sua conversione, figliola, ed evitare le influenze maligne, sì, la conversione è d'obbligo, un obbligo in vista... dell'Eternità.”

“Un obbligo, padre?” mormorò lei. “Intendete un obbligo in vista del matrimonio?”

“...dell'Eternità” ribadì la voce.

Angélique fissò l'ombra oltre la grata. Era sicura che padre Leo stesse mentendo e quel pensiero la inorridiva. “Farò del mio meglio” disse.

Scostò le tende e uscì in cerca di aria.

Lui le si parò davanti, con la fronte sudata, sovrastandola con la sua mole. “E per la sua salvezza, figliola.

Sarebbe meglio se accadesse prima.”

“Intendete dire, padre, che ci sposerete solo se prima si sarà convertito?” chiese lei terrorizzata.

“Non spetta a me dettare le condizioni, ma a Sua Eminenza, noi non siamo che fedeli servitori!”

“Nella chiesa del mio fidanzato nessuno mi ha imposto di diventare protestante, quindi è ovvio che io non posso costringere lui.”

“Deve vedere la Luce! Questo matrimonio è un dono di Dio. Un protestante?

Quell'eresia? Quell'apostasia? Impensabile, vi perderete, sarete dannata, scomunicata e la vostra anima immortale verrà mandata a bruciare per sempre nel fuoco eterno!” Tenendo gli occhi bassi Angélique si sforzò di pensare in modo coerente.

“Io sì, ma lui... sono in milioni a credere diversamente.”

“Sono tutti pazzi e dannati e bruceranno in eterno!” La voce di padre Leo divenne ancora più dura. “Sarà così! Dobbiamo convertire i pagani. Malcolm Struan si deve convertire...”

“Farò del mio meglio, padre, grazie...” mormorò lei. Lo aggirò e scappò via.

Raggiunta la porta si voltò, si genuflesse e uscì alla luce. La voce di padre Leo, in piedi con le spalle rivolte all'altare, rimbombava tra le travi della navata: “Siate uno strumento di Dio, convertite il pagano, se amate il Signore salvate quest'uomo dal purgatorio, se amate il Signore aiutatemi a salvarlo dal fuoco eterno, salvatelo per la Gloria del Signore, dovete farlo... prima di sposarvi, salvarlo...”.

 

Quella stessa sera una pattuglia composta da dieci samurai armati di spade e protetti da armature leggere uscì dal posto di guardia della porta settentrionale. L'ufficiale che li guidava li condusse oltre il ponte e la barriera e si addentrò nell'Insediamento. Uno degli uomini reggeva due torce che disegnavano strane ombre, un altro portava uno stendardo alto e sottile con una scritta.

High Street e il lungomare erano ancora affollati da mercanti, soldati, marinai e commercianti che si godevano la piacevole serata passeggiando, chiacchierando e ridendo in gruppi sparsi; c'erano poi dei cantori improvvisati, qualche ubriaco e un paio di guardinghi prostituti maschi.

Sulla spiaggia alcuni marinai mezzo ubriachi avevano acceso un fuoco e ballavano al suono della cornamusa con un travestito. In lontananza si udiva il brusio della Città Ubriaca.

Quando la minacciosa presenza giapponese fu notata, quelli che passeggiavano si fermarono, quelli che conversavano lasciarono le frasi a mezzo, tutti guardarono verso nord e i più vicini alla pattuglia si fecero da parte. Molti rimpiansero di non avere una pistola in tasca o nella fondina. Altri arretrarono e un soldato fuori servizio scappò in un vicolo ad avvisare la ronda notturna della marina.

“Che cosa sta succedendo, signore?” chiese Gornt.

“Niente, per ora” rispose Norbert scuro in volto. Erano sulla passeggiata e ancora molto lontani dai samurai i quali, com'era loro abitudine, sfilavano senza tenere il passo e senza prestare attenzione alla folla silenziosa e impietrita.

Lunkchurch si avvicinò furtivamente ai due. “Siete armato, Norbert?”

“No. E voi?”

“No.”

“Io lo sono, signore.” Gornt mostrò la sua piccola pistola. “Ma questa non li scalfirebbe nemmeno, se avessero cattive intenzioni.”

“Quando si è in dubbio, giovanotto” disse Lunkchurch con voce rauca, “conviene svignarsela, lo dico sempre.” Prima di andarsene, allungò la mano verso Gornt. “Barnaby Lunkchurch, piacere di conoscervi signor Gornt, benvenuto a Yokopoko, ci rivedremo al circolo... dicono che giocate a bridge.”

A poco a poco si allontanavano tutti. Gli ubriachi erano improvvisamente diventati sobri e ciascuno stava in guardia, consapevole della velocità con cui i samurai sguainavano le spade e partivano all'attacco.

Norbert, che si era già scelto una via di fuga in caso di emergenza, vide la ronda notturna della marina, capitanata da un sergente, uscire di corsa da una strada laterale con i fucili spianati e schierarsi con autorità ma senza essere provocatoria lungo la passeggiata. “Adesso non dobbiamo più preoccuparci” disse Greyforth più rilassato. “Portate sempre quella pistola con voi, Edward?”

“Oh, sì, signore, credevo di avervelo detto.”

“No, mai” tagliò corto Norbert . “Posso vederla?”

“Certo. E' carica, naturalmente.” Era una pistola piccola ma micidiale, con il manico rivestito d'argento, a canna doppia, caricata con due proiettili di bronzo. Gliela restituì.

“Carina. E' americana?”

“Francese. Me l'ha regalata mio padre quando sono andato in Inghilterra, diceva di averla vinta a un giocatore professionista sul Mississippi. E' l'unica cosa che mi abbia mai regalato.” Gornt ridacchiò e come Greyforth guardò i samurai sempre più vicini.

“Me la porto anche a letto, signore, ma l'ho usata solo una volta, contro una signora che stava scappando nel cuore della notte con il mio portafogli.”

“L'avete colpita?”

“No, signore, non ci ho nemmeno provato, le ho solo disfatto l'acconciatura per spaventarla. Una signora non dovrebbe rubare, vi pare?” Norbert borbottò qualcosa e tornò a guardare i samurai. Adesso vedeva Gornt sotto una nuova luce, più inquietante.

La pattuglia camminava al centro della strada e le sentinelle della Legazione britannica, francese e russa, già all'erta, impugnarono con calma i fucili. “Lasciate le sicure, ragazzi! E non sparate fino a quando non ve lo ordino” ringhiò il sergente.

“Grimes, va' subito ad avvisare il capo, è dai russi, terza casa in fondo alla strada, stai attento.” Il soldato scivolò via. Le fiamme dei lampioni sulla passeggiata ondeggiavano e tutti aspettavano in ansia. L'ufficiale si avvicinava impettito e impassibile. “Brutta faccia, vero, sergente?” sussurrò una sentinella con le mani sudate strette sul fucile.

“Hanno tutti brutte facce. Sta' calmo.”

L'ufficiale arrivò all'altezza della Legazione britannica e lanciò un ordine. Gli uomini si fermarono in formazione davanti al cancello mentre il graduato proseguì e si rivolse in un giapponese gutturale al sergente.

Silenzio assoluto. Il samurai pronunciò con impazienza altre parole, chiaramente degli ordini.

“Cosa vuoi, tappo?” chiese con voce dura il sergente, mezzo metro più alto di lui.

Il giapponese, sempre più irritato, ribatté sguaiatamente qualcosa.

“Qualcuno qui capisce cosa sta dicendo?” gridò il sergente. Nessuno rispose, poi Johann, l'interprete, si fece largo con cautela tra la folla, si inchinò all'ufficiale, che ricambiò in modo sbrigativo, e gli parlò in olandese. Il samurai rispose in un olandese stentato.

“Ha un messaggio” riferì Johann, “una lettera per sir William, la deve consegnare di persona.”

“Non credo proprio, signore, con quelle brutte spade al fianco.” L'ufficiale avanzò verso il cancello della Legazione e tutte le sicure scattarono. Si fermò e imprecò all'indirizzo del sergente e delle sentinelle.

I samurai misero mano alle spade. In fondo alla strada il drappello della marina si schierò pronto a fronteggiare l'attacco. Ciascuna delle due parti era in attesa del primo passo falso.

In quell'istante Pallidar e altri due ufficiali dei dragoni in alta uniforme uscirono di corsa dalla Legazione russa. “Prendo io il comando, sergente” disse Pallidar.

“Qual è il problema?” Johann glielo spiegò.

Pallidar, che ormai conosceva bene le usanze giapponesi, raggiunse l'ufficiale samurai, si inchinò e aspettò finché l'altro non ebbe risposto con un inchino altrettanto profondo. “Ditegli che accetto la sua lettera.

Sono l'aiutante di campo di sir William” disse, esagerando.

“Dice che è spiacente, ma i suoi ordini sono di consegnarla personalmente.”

“Ditegli che sono autorizzato a...” La voce di sir William lo interruppe. “Capitano Pallidar, aspettate!

Johann, chi manda questa lettera?” Era sulla soglia della Legazione russa, con Zergeyev e gli altri che premevano alle sue spalle.

L'ufficiale indicò lo stendardo e pronunciò altre parole dal suono aspro. Johann tradusse: “Dice che la manda il tairò, ma credo che si riferisca ai roju, agli Anziani. Gli è stato ordinato di consegnarla subito, personalmente”.

“Va bene, la prenderò, ditegli di venire qui.” Johann tradusse. L'ufficiale ordinò con un cenno imperioso a sir William di avvicinarsi, ma sir William senza scomporsi gridò in tono tutt'altro che, cortese: “Ditegli che sono a cena, e che se non si muove subito me la dovrà consegnare domani”.

Johann, troppo esperto per tradurre alla lettera, si limitò a dare alle sue parole l'enfasi necessaria a comunicare il senso della risposta.

Furente, l'ufficiale inspirò e si avviò deciso verso il cancello della Legazione russa, superò le due immense sentinelle barbute e si piazzò davanti a sir William, aspettandosi un inchino.

“Keirei!” sbraitò sir William. Saluta!

Una delle poche parole che aveva imparato.

“Keirei!” L'ufficiale avvampò ma si inchinò automaticamente, come dinanzi a un pari, e si infuriò ulteriormente nel vedere che sir William, rispondeva solo con un cenno, come dinanzi a un inferiore. Poi pensò: questo ripugnante ometto è il capo dei gai-jin, la sua irascibilità è nota quanto il suo fetore. Quando attaccheremo mi riprometto di ucciderlo personalmente.

Prese un rotolo, si avvicinò, lo porse, arretrò, si inchinò e attese che il gai-jin si inchinasse a sua volta, per quanto sommariamente, del tutto convinto di aver avuto la meglio sul nemico. Inveì contro i suoi uomini per scaricare la rabbia, e si allontanò. Furibondi per l'inciviltà dimostrata dai gai-Jin, i samurai lo seguirono.

“Dove diavolo è Tyrer?” chiese sir William.

“Mando subito qualcuno a chiamarlo” rispose Pallidar.

“No, non importa, di' a Johann di raggiungermi.”

“Non è necessario, sir William” intervenne Erlicher, il ministro svizzero, “se è in olandese posso tradurre io.”

“Grazie, preferisco farmi aiutare da Johann, che sa anche il giapponese” rispose sir William che non desiderava condividere nulla con uno sconosciuto, specie con il rappresentante di un paese piccolo che però possedeva una industria bellica in rapido sviluppo, altamente specializzata e ansiosa di esportare, e fondava la sua fama sull'abilità unica e straordinaria dei suoi orologiai, uno dei pochi settori in cui la produzione britannica non poteva competere.

La sala da pranzo, la stanza più grande della Legazione russa, conteneva un tavolo per venti persone imbandito con raffinata argenteria e ricchi piatti di portata. Alla festa erano presenti tutti i ministri, escluso von Heimrich, sempre ammalato, nonché alcuni ufficiali francesi e britannici. Angélique e Malcolm sedevano a capotavola. Dietro a ciascun ospite erano appostati due inservienti in livrea e altri servivano.

“Posso ritirarmi nell'anticamera?” chiese in russo sir William.

“Certo.” Il conte Zergeyev aprì la porta. Attesero l'arrivo di Johann che la richiuse alle sue spalle.

“Buonasera, sir William” disse Johann, contento di essere stato chiamato. Sarebbe stato il primo a sapere di che si trattava, e così avrebbe continuato a dimostrarsi utile, con profitto, al ministro del suo paese.

Ruppe i sigilli del rotolo e si sedette. “E' un breve messaggio scritto in giapponese e olandese.”

Lo scorse rapidamente, si accigliò, lo rilesse più volte e scoppiò in una risata nervosa. “E' indirizzato a voi, al ministro britannico, e dice: “Mi rivolgo a voi per tramite di questo dispaccio. Lo shògun Nobusada, da Kyòto, ordina di chiudere immediatamente tutti i porti e di espellere e cacciare tutti gli stranieri, perchè non...”.

“Cacciare? Cacciare avete detto?” Il grido oltrepassò la porta e una pesante cappa scese sugli ospiti che cenavano.

Johann trasalì. “Sì, signore, mi dispiace, signore, è scritto proprio così: “e cacciare tutti gli stranieri, perchè tra gli stranieri e il nostro popolo non ci serve né desideriamo alcun contatto. Vi spedisco questo prima di convocare una riunione immediata per definire i particolari del vostro urgente ritiro da Yokohama. Con rispetto”.”

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