In Other Words (29 page)

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Authors: Jhumpa Lahiri

BOOK: In Other Words
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Marco e Claudia mi danno la chiave. Quando menziono di aver studiato un po' d'italiano, e che vorrei migliorarlo, smettono di parlare con me in inglese. Passano alla loro lingua, benché io riesca a rispondere solo in modo semplicissimo.
Malgrado tutti i miei errori, malgrado io non capisca completamente quello che dicono. Malgrado il fatto che loro parlano inglese molto meglio di quanto io parli italiano.

Loro tollerano i miei sbagli. Mi correggono, mi incoraggiano, mi forniscono le parole che mi mancano. Parlano con chiarezza, con pazienza. Così come i genitori con i loro bambini. Come si impara la lingua madre. Mi rendo conto di non aver imparato l'inglese in questa maniera.

Claudia e Marco, che hanno tradotto e pubblicato il mio primo libro in italiano, e che mi ospitano in Italia per la prima volta da scrittrice, mi regalano questa svolta. Grazie a loro, a Mantova, mi trovo finalmente dentro la lingua. Perché alla fine per imparare una lingua, per sentirsi legati a essa, bisogna avere un dialogo, per quanto infantile, per quanto imperfetto.

LE CONVERSAZIONI

T
ornata in America, voglio continuare a parlare italiano. Ma con chi? Conosco alcune persone a New York che lo sanno alla perfezione. Mi vergogno a parlare con loro. Mi serve qualcuno con cui posso stentare, posso fallire.

Un giorno vado alla New York University, all'istituto d'italiano, per intervistare una celebre scrittrice romana che ha vinto il premio Strega. Mi trovo in una sala strapiena, in cui tutti parlano un italiano impeccabile tranne me.

Mi accoglie il direttore. Gli dico che avrei voluto fare l'intervista in italiano. Che ho studiato la lingua anni fa, ma non riesco a parlare bene.

«Bisogno praticare» gli dico.

«Hai bisogno di pratica» mi risponde gentilmente.

Nel 2004 mio marito mi dà una cosa. Un pezzettino di carta strappato da un annuncio, visto per caso, per strada, nel nostro quartiere a Brooklyn. C'è scritto: «Imparare l'italiano». Lo considero un segnale. Chiamo il numero, fisso un appuntamento. Arriva a casa mia una donna simpatica, energica, anche lei di origine milanese. Insegna ai bambini in una scuola privata, abita in periferia. Mi chiede come mai io voglia imparare la lingua.

Spiego che andrò, in estate, a Roma, per partecipare a un altro festival letterario. Sembra un motivo ragionevole. Non rivelo che l'italiano è un mio estro. Che covo una speranza – anzi, il sogno – di conoscerlo bene. Non faccio capire che sto cercando un modo per tener viva una lingua che non c'entra con la mia vita. Che mi angoscio, che mi sento incompleta. Come se l'italiano fosse un libro che non riesco, per quanto lavori, a realizzare.

Ci vediamo una volta alla settimana, per un'oretta. Sono incinta di mia figlia, che nascerà a novembre. Provo a fare due chiacchiere. Alla conclusione di ogni lezione, lei mi dà una lunga lista di parole che mi mancavano durante la conversazione. La ripasso assiduamente. La metto in una cartella. Non riesco a ricordarmele.

Al festival di Roma riesco a scambiare tre, quattro, magari cinque frasi con qualcuno. Dopodiché mi fermo; non mi è possibile fare di più. Conto le frasi, come se fossero i colpi durante una partita di tennis, come se fossero le bracciate quando si impara a nuotare.

Torniamo alla metafora del lago, quello che voglio attraversare. Ora posso camminare nell'acqua, fino al ginocchio, fino alla vita. Ma devo ancora poggiare i piedi sul fondo. Appunto, sono costretta a fare ciò che fanno quelli che non sanno nuotare.

Nonostante le conversazioni, la lingua resta un elemento sfuggente, evanescente. Compare solo grazie all'insegnante. Lei la rende presente a casa mia per un'ora, poi la porta via. Sembra concreta, palpabile, solo quando sono insieme a lei.

Nasce mia figlia, passano altri quattro anni. Porto a termine un altro libro. Dopo la pubblicazione nel 2008, ricevo un altro invito in Italia, per promuoverlo. Per prepararmi
trovo una nuova insegnante. Una giovane entusiasta, premurosa, di Bergamo. Anche lei viene una volta alla settimana da me. Parliamo sul divano, una accanto all'altra. Facciamo amicizia. La mia comprensione migliora sporadicamente. L'insegnante mi incoraggia molto, mi dice che parlo bene la lingua, dice che in Italia ce la farò. Ma non è vero. Quando vado a Milano, quando provo a parlare in modo intelligente, in modo scorrevole, mi rendo sempre conto degli sbagli che mi impacciano, che mi confondono, e mi sento avvilita più che mai.

Nel 2009 inizio a studiare con la terza insegnante privata. Una signora veneziana che si è trasferita a Brooklyn più di trent'anni fa, che ha cresciuto i suoi figli in America. Vedova, abita con un cane mansueto, sempre ai suoi piedi, in una casa circondata dal glicine, vicina al ponte di Verrazzano. Ci metto quasi un'ora per raggiungerla. Prendo la metropolitana fino al confine di Brooklyn, quasi al capolinea.

Amo questo viaggio. Esco da casa, lascio alle spalle il resto della mia vita. Non penso alla mia scrittura. Dimentico, per qualche ora, le altre lingue che conosco. Sembra, ogni volta, una piccola fuga. Mi aspetta un luogo in cui conta solo l'italiano. Un riparo da cui si sprigiona una nuova realtà.

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