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Authors: Jhumpa Lahiri

In Other Words (32 page)

BOOK: In Other Words
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IL RACCOLTO DELLE PAROLE

S
ono di continuo a caccia di parole.

Descriverei il processo così: ogni giorno entro in un bosco con un cestino in mano. Trovo le parole tutt'attorno: sugli alberi, nei cespugli, per terra (in realtà: per la strada, durante le conversazioni, mentre leggo). Ne raccolgo quante più possibile. Ma non bastano, ho un appetito insaziabile.

Raccolgo sia quelle che mi sembrano oscure (
sciagura, spigliatezza
) sia quelle che riesco facilmente a capire ma vorrei conoscere meglio (
inviperito, stralunato
). Raccolgo delle belle parole che non hanno equivalenti in inglese (
formicolare, chiarore
). Raccolgo una valanga di aggettivi (
malmesso, plumbeo, impiastricciate
) per descrivere migliaia di situazioni. Raccolgo innumerevoli sostantivi e avverbi che non mi serviranno mai.

Alla fine della giornata il cestino è pesante, traboccante. Mi sento carica, arricchita, frizzante. Sembrano più preziose dei soldi, le mie parole. Mi sento una mendicante che scopre un mucchio d'oro, un sacco di gemme.

Ma quando esco dal bosco, quando vedo il cestino, rimane appena una manciata di parole. La maggior parte sparisce. Evaporano nell'aria, colano come l'acqua tra le dita. Perché il cestino non è altro che la memoria, e la memoria mi tradisce, la memoria non regge.

Sento un legame con ogni parola che raccolgo. Provo affetto, insieme a un senso di responsabilità. Quando non riesco a ricordarle, temo di averle abbandonate.

Mi sento svuotata, abbattuta, come ci si sente la mattina dopo un sogno favoloso. Il bosco sembra un paradiso, un'allucinazione. Poi mi sveglio.

Benché sconfitta, non mi sento troppo scoraggiata. Semmai, mi sento ancora più determinata. Il giorno dopo, ritorno nel bosco. Non credo che il mio progetto sia uno spreco di tempo. So che il bello è il gesto di raccogliere, non il risultato.

Tuttavia non è sufficiente, neanche soddisfacente, radunare soltanto le parole sul taccuino. Voglio usarle. Voglio attingervi quando ne ho bisogno. Voglio entrare in contatto con loro. Voglio che diventino una parte di me.

Ripasso le parole per impararle, per memorizzarle. Ci penso mentre dialogo con qualcuno. So che ci sono, scritte a mano sul taccuino. Se fossi un genio, ricorderei tutto, così potrei conversare in maniera molto più precisa, sciolta. Ma quando mi servono, le parole sono elusive, imprendibili. Esistono sulla pagina ma non entrano nel cervello, quindi non escono dalla bocca. Restano sul taccuino, incastrate, inutili. Mi accorgo solo del fatto di averle notate.

Rileggendo il taccuino, mi rendo conto di certe parole che devo scrivere più di una volta, che resistono alla mia memoria.
Semplici ma ostinate (
fruscio, schianto, arguto, broncio
), forse non vogliono avere alcun rapporto con me.

Tutte le parole dentro il taccuino sono il segno di una crescita fisica, metodica. Mi vengono in mente le prime settimane di vita dei miei figli, un periodo in cui andavo dalla pediatra ogni settimana per controllare il loro peso. Ogni grammo è stato notato, valutato. Ciascuno è stato prova concreta della loro presenza sulla terra, della loro esistenza. La mia comprensione dell'italiano cresce in modo simile. Acquisisco il mio vocabolario giorno per giorno, parola per parola.

Eppure, il mio lessico si sviluppa senza logica, in maniera guizzante, fugace. Le parole si presentano, mi accompagnano per un po', poi, spesso senza preavviso, mi abbandonano.

Il taccuino racchiude tutto il mio entusiasmo per la lingua. Tutto lo sforzo. Uno spazio in cui posso vagabondare, imparare, dimenticare, fallire. In cui posso sperare.

IL DIARIO

A
rrivo a Roma con la mia famiglia, qualche giorno prima di ferragosto. Non conosciamo questa abitudine di partire in massa. Nel momento in cui quasi tutti scappano via, in cui quasi tutta la città è ferma, proviamo a iniziare un nuovo capitolo della nostra vita.

Affittiamo un appartamento in via Giulia. Una strada elegantissima, a metà agosto desolata. Fa un caldo feroce, insopportabile. Quando usciamo per fare spese, cerchiamo, ogni due passi, il momentaneo sollievo dell'ombra.

La seconda sera, un sabato, rientrando a casa la porta non si apre. Prima si apriva senza problemi. Ora, per quanto provi, la chiave non gira dentro la serratura.

Non c'è nessuno nel palazzo eccetto noi. Siamo senza documenti, ancora senza un telefono funzionante, senza alcun amico o conoscente romano. Chiedo aiuto all'albergo di fronte al palazzo, ma neanche due dei loro impiegati riescono ad aprire la porta. I nostri padroni di casa sono in vacanza in Calabria. I miei figli, sconvolti, affamati, dicono piangendo che vogliono tornare subito in America.

Alla fine viene un tecnico che apre la porta in un paio di
minuti. Gli diamo più di duecento euro, senza fattura, per il servizio.

Questo trauma mi pare sia una prova del fuoco, una sorta di battesimo. Ma ci sono parecchi altri ostacoli, piccoli ma scoccianti. Non sappiamo dove portare la differenziata, come comprare una tessera per i mezzi pubblici, dove fermano gli autobus. Tutto va imparato da zero. Se chiedessimo indicazioni a tre romani, ognuno dei tre ci darebbe una risposta diversa. Mi sento scombussolata, spesso schiacciata. Nonostante il mio grande entusiasmo per il fatto di vivere a Roma, ogni cosa sembra impossibile, indecifrabile, impenetrabile.

Una settimana dopo essere arrivata, il sabato dopo quel sabato sera indimenticabile, apro il mio diario per descrivere le nostre disavventure. Quel sabato, faccio qualcosa di strano, inaspettato. Scrivo il diario in italiano. Lo faccio in modo quasi automatico, spontaneo. Lo faccio perché quando prendo la penna in mano, non sento più l'inglese nel cervello. In questo periodo in cui tutto mi confonde, tutto mi turba, cambio la lingua in cui scrivo. Inizio a raccontare, nel modo più impegnativo, tutto ciò che mi mette alla prova.

Scrivo in un italiano bruttissimo, scorretto, imbarazzante. Senza controllo, senza dizionario, soltanto d'istinto. Vado a tentoni, come un bambino, come una semianalfabeta. Mi vergogno di scrivere così. Non capisco questo impulso misterioso che sbuca dal nulla. Non riesco a smettere.

È come se scrivessi con la mano sinistra, la mia mano debole, quella con cui non devo scrivere. Sembra una trasgressione, una ribellione, una stupidaggine.

Durante i primi mesi a Roma, il mio diario clandestino
in italiano è l'unica cosa che mi consola, che mi dà stabilità. Spesso, a notte fonda, sveglia, inquieta, vado alla scrivania per comporre qualche paragrafo in italiano. È un progetto segretissimo. Nessuno sospetta, nessuno sa.

Non riconosco la persona che sta scrivendo in questo diario, in questa nuova lingua approssimativa. Ma so che è la parte più schietta, più vulnerabile di me.

Prima di trasferirmi a Roma scrivevo di rado in italiano. Tentavo di comporre qualche lettera a una mia amica italiana che vive a Madrid, qualche email alla mia insegnante. Sembravano esercizi formali, artificiali. Non sembrava la mia voce. In America non lo era.

A Roma, però, scrivere in italiano sembra l'unico modo di sentirmi presente qui – magari di avere una connessione, soprattutto come scrittrice, con l'Italia. Il nuovo diario, per quanto imperfetto, per quanto crivellato di errori, rispecchia chiaramente il mio disorientamento. Riflette una transizione radicale, uno stato di smarrimento totale.

Nei mesi prima di venire in Italia, cercavo un'altra direzione per la mia scrittura. Volevo un nuovo approccio. Non sapevo che la lingua che avevo studiato pian piano per parecchi anni in America mi avrebbe dato, alla fine, l'indicazione.

Esaurisco un quaderno, ne comincio un altro. Mi viene in mente una seconda metafora: come se, poco attrezzata, scalassi una montagna. È una sorta di sopravvivenza letteraria. Non ho molte parole per esprimermi, tutt'altro. Mi rendo conto di uno stato di deprivazione. Eppure, al contempo, mi sento libera, leggera. Riscopro la ragione per cui scrivo, la gioia insieme all'esigenza. Ritrovo il piacere che provo fin da
ragazzina: mettere delle parole in un quaderno, che nessuno leggerà.

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