Virus (6 page)

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Authors: Sarah Langan

BOOK: Virus
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Sentiva la mancanza di David molto più di quanto si sarebbe aspettata, e probabilmente proprio per questo si era lasciata coinvolgere in quella storia con Graham Nero. Maddie e Fenstad si aspettavano pasti caldi e bollette pagate, una casa in ordine e consigli sensati. Certo apprezzavano ciò che lei faceva per loro; non si poteva certo definirla una martire trascurata. Fatto sta, il suo copione domestico aveva cominciato a starle stretto.

Prendi Maddie, per esempio. Durante l'estate si era fatta il piercing all'ombelico con un anello d'acciaio, usando solo uno spruzzo d'alcol e un cubetto di ghiaccio come anestetico. «SONO TROPPO PUNK!» aveva strillato facendo irruzione in cucina, alzando al soffitto le mani con i pollici, gli indici e i mignoli dritti come una virago metallara. Solo che il sangue non aveva mai smesso di inzuppare le mutande del suo costume da bagno a pois blu. Per forarsi la pelle con più efficacia, aveva rivestito la punta dell'anello con il Crisco, dimenticando che l'olio è un anticoagulante. Aveva rischiato di finire al pronto soccorso prima che il suo buon senso avesse il sopravvento e lei stessa si sfilasse l'anello per permettere alla ferita di rimarginarsi. Ma Maddie era fatta così. Era una ragazza che agiva senza riflettere. Non guardava mai prima di attraversare la strada, sorrideva agli sconosciuti, e si era recentemente tinta i capelli di viola prima di leggere sull'etichetta che il colore era permanente.

E poi c'era Fenstad. Fosse dipeso da lui avrebbe mangiato soltanto carne essiccata e avrebbe pescato i vestiti dal cesto della biancheria sporca, scegliendo semplicemente quelli che puzzavano meno di sudore. Vent'anni di matrimonio, e lui non aveva imparato nemmeno a cucinarsi una pasta. Di tanto in tanto le capitava di alzare gli occhi su quei due selvaggi seduti a tavola con lei, e chiedersi:
Ma dove cazzo sono finita?

Meg cambiò posizione sul gradino. Aveva incrociato le gambe, e le si erano addormentate. Le formicolavano dalla punta dei piedi fino al sedere. Oddio, stava diventando vecchia. Tanto valeva comprarsi un flacone di linimento contro i reumatismi e un paio di scarpe ortopediche e rassegnarsi.

L'autunno era stato stranamente caldo, e per quel giorno si prevedevano temperature massime fino a venti gradi. Un clima perfetto per concedersi una piccola vacanza. Lei e Fenstad potevano darsi malati al lavoro, fare una gita al Baxter State Park, salire a piedi fino a Katahdin, ingozzandosi degli ultimi mirtilli della scorsa stagione colti lungo il sentiero. Di progetti ne facevano sempre tanti: partire, prendere una stanza in un motel scalcinato e fare sesso acrobatico, andare al bowling di pomeriggio. Chissà come, in tutti questi anni, non c'era mai stato il tempo di realizzarli.

Buffo come andavano le cose. Ma no, siamo sinceri. Non era buffo affatto.

Dopo l'incendio a Bedford, Fenstad aveva suggerito di trasferirsi a Boston. Temeva che i cartelli di 'scorie pericolose' collocati all'uscita 117 dell'autostrada preannunciassero la catastrofe. Ma poi i cartelli erano stati tolti, e il progetto di trasloco dimenticato. Comunque, la cosa le aveva dato da pensare. L'anno successivo, una volta che Maddie avesse finito la scuola, avrebbero potuto vendere la casa. Andare ciascuno per la sua strada. Rifarsi una vita finché erano ancora relativamente giovani. O non troppo vecchi, diciamo. Pensieri come quelli le scorrevano come metallo fuso nel sangue, e si rapprendevano. Erano dolorosi, e tuttavia persistevano.

Non essendo un tipo da sospiri, Meg si limitò a stringere le labbra. Gli uccelli che abitavano il nido nella grondaia al secondo piano cominciarono a cinguettare. Pettirossi? Merli? Rondini? Non lo sapeva. I suoi preferiti erano i colibrì. Agitavano le ali così velocemente da sembrare un'unica macchia sfocata, e tutto solo per stare fermi. Bella caparbia.

Meg infilò le mani in tasca e schiacciò le bacche di belladonna. Probabilmente Fenstad si era svegliato. Ultimamente lui e Maddie non si rivolgevano parola. I problemi della crescita: lo faceva soffrire che lei non fosse più la sua bambina, e lo stesso valeva per lei. Così si ignoravano perché non sapevano cos'altro fare. Diversamente da Maddie, i cui umori si altalenavano come un pendolo a seconda di cosa aveva mangiato, di un'eventuale lite con il suo ragazzo e del giorno del mese, Fenstad era la voce stessa della ragione. Pacato, ponderato, logico. Rideva raramente e non piangeva mai. Freddo, a dirla tutta. Suo marito era un uomo freddo.

Meg lasciò cadere le bacche sul sentiero. Le venne la pelle d'oca su braccia e gambe. Si depilava praticamente tutto il corpo salvo la testa, così aveva la pelle liscia come la buccia di una pesca senza peluria. I nonni materni e paterni erano originari del nord Italia e gran parte della sua famiglia aveva la carnagione chiara, mentre lei era un residuo scuro e olivastro di chissà quale generazione precedente. La pubertà l'aveva travolta a soli undici anni, e nell'estate tra prima e seconda media le erano venute le mestruazioni. Come sgradevole corollario, dei baffi scuri e fitti le erano comparsi sul labbro superiore come una gatta pelosa smarrita. A scuola quell'autunno l'avevano presa in giro senza sosta. Orde di spietati dodicenni avevano fatto finta di invitarla fuori. (
Vuoi diventare mia moglie, Muso di Cane?
l'aveva implorata Phil Payne ridendo finché le lacrime non gli erano scivolate sulle guance.
Io ti amo, Muso di Cane!
) Le scritte sulle pareti del bagno avevano fatto girare la voce che fosse ermafrodita. Una ex amica aveva persino raccontato di averle visto il pene nello spogliatoio femminile.

Durante le vacanze di Natale si era comprata un kit per la ceretta. Aveva imparato subito a usare pinzette, strisce e rasoi, e con la dieta si era trasformata in una versione tirata a lustro della vecchia Meg Bonelli. Nonostante il persistere delle voci di un'appendice che le pendeva in mezzo alle gambe, giunta in terza media usciva con il capitano della squadra juniores di lotta libera, e alla fine dell'ultimo anno del liceo si era classificata terza nel concorso per la reginetta del ballo, una candidatura per la quale aveva fatto una campagna disperata. Quando avevano annunciato la vincitrice, lei aveva nascosto le lacrime restando accucciata per venti minuti in un gabinetto chiuso a chiave. Quando tre anni dopo aveva conosciuto Fenstad, lui non avrebbe mai potuto indovinare che il suo soprannome un tempo era stato Muso di Cane, né che se avesse saltato per una settimana la ceretta sul labbro e sul mento le si sarebbe ombreggiato il volto come a un maschio. Era per lei motivo d'orgoglio femminile il fatto che lui non lo avesse ancora capito.

A tutt'oggi, la minaccia di quelle pur brevi derisioni le era rimasta addosso. Si dedicava con devozione a stirare sui propri pantaloni una riga impeccabile, ad asciugarsi in una messa in piega liscia e ben definita, i capelli che incorniciavano il suo volto piccolo e spigoloso. Aveva appreso il valore delle linee pulite, nitide, di un sorriso ordinato e sfavillante di bianco, della snellezza della sua vita chiusa in una gonna plissettata. Sfortunatamente il suo perfezionismo era stato ereditato da Maddie, che a colazione succhiava un pompelmo, uno spicchio alla volta.

Meg strizzò gli occhi. Il sole ora brillava più alto nel cielo, e la città cominciava a svegliarsi. La sua casa su River Street si affacciava sul centro di Corpus Christi, e in lontananza riusciva a intravedere l'edificio squadrato dell'ospedale e l'auto-silos a quattro piani che spuntava di fianco. Più in là c'era la chiesa episcopale, decorata da una semplice croce di rame ormai verdastro. Lungo River Street c'era una fila di negozi a due piani. Sulla strada, una lenta processione di macchine con a bordo medici, infermieri, anestetisti e dirigenti diretta all'ospedale.

Tutti i prati di questa città erano curati e verdi. La squadra di giardinieri veniva una volta la settimana e come per magia seminava il terreno e potava le siepi. Una legione di domestici veniva in autobus dai quartieri occidentali verso Corpus Christi. Lavoravano in nero, facendo le pulizie nelle case, lavando i pavimenti dei negozi e sudando a petto nudo sotto il sole. Al suo giardiniere, o alle donna di pulizie del mercoledì, lei non rivolgeva mai la parola. Lasciava loro solo buste piene di banconote, intestandole con i nomi di battesimo. Era così che si faceva qui a Corpus Christi, non che questo incontrasse necessariamente la sua approvazione.

Lo stomaco vuoto di Meg brontolò, e lei pensò al caffè, alle uova. Il giornale che teneva in mano era un grumo zuppo e pesante. Tuttavia rimase a guardare. Quella mattina c'era qualcosa nella città davanti a lei, nella casa sulla soglia della quale stava appollaiata, che la rendeva triste. Ne sentiva la mancanza, anche se non se n'era ancora andata. La amava come si ama qualcuno che stai per perdere.

Fin dai tempi del disastro di Graham Nero, quella parola era fissa nei suoi pensieri. La teneva sveglia di notte, affiorando minacciosa come gli annegati di Bedford che per tutta l'estate erano riemersi, così gonfi da essere irriconoscibili, dal fiume Messalonski. Ci pensava mentre litigava con Maddie, mentre pagava le bollette, mentre guardava la tv la sera tardi, mentre dava il bacio della buonanotte a suo marito. Per quanto si sforzasse di seppellirla, la parola si rifiutava di sprofondare. Divorzio, pensava almeno una volta ogni ora durante la sua giornata. Divorzio. Divorzio. Divorzio.

Gli uccelli volarono dal loro nido e presero a beccare lungo il sentiero. Avevano la testa nera e il petto bianco. Il loro canto era un gorgheggio vertiginoso, e finalmente le tornò in mente come si chiamavano: cinciallegre. Meg si tolse le pantofole e si alzò. Perché no? Cosa glielo impediva? Maddie se ne sarebbe andata l'anno prossimo, e suo figlio era già partito: cos'altro aveva da perdere?

Il prato bagnato le conficcò un chiodo di gelo nella pianta dei piedi. La pelle d'oca divenne ancora più visibile, e il giornale si fece così pesante nella mano che lo lasciò cadere. Aveva quarantacinque anni e non aveva mai fatto il bagno nuda, mai provato a entrare al cinema senza pagare, mai fumato uno spinello, mai rotto un piatto di proposito. Voleva sprofondare i piedi nel terreno. Voleva fare le capriole sul prato come una ragazzina. Voleva prendersi una settimana di vacanza e giocare con suo marito, proprio giocare, tanto che la sera andando a letto la pancia avrebbe fatto male per il troppo ridere.

Voleva chiamarlo attraverso la finestra come una Giulietta emancipata, e dirgli che loro erano meglio di così. Fenstad, David, Maddie: tutti. Questo posto dovevano lasciarselo alle spalle. Si voltò, valutando se farlo sul serio, ma qualcosa la bloccò. Qualcosa che aveva a che fare con gli uccelli. Non riusciva a identificarlo esattamente. Becchettavano sul sentiero. Minuscole cinciallegre. Creaturine graziose. Una di esse ingoiò una bacca. La sua bacca. E allora ricordò.

Il cuore di Meg Wintrob accelerò i battiti. Gli uccelli sapevano fiutare il veleno, giusto? E allora che stavano facendo? D'altra parte, mangiavano il riso crudo e asciutto lanciato ai matrimoni e poi bevevano fino a farsi scoppiare lo stomaco. O era un mito? Il cuore le martellava nel petto, pompandole sangue al volto che si fece rosso come i biglietti di San Valentino:
Cosa stavano facendo?

Tutte le bacche erano sparite. Dovevano essercene state cinque o sei.
Oh no.
Si massaggiò la fronte. A terra, uno degli uccelli smise di beccare. Sbatté le ali, ma non abbastanza in fretta da prendere il volo. Saltellò sul sentiero, zigzagando come se avesse le vertigini. Sembrava ubriaco, e sarebbe stato buffo, avrebbe fatto pensare a Picchiarello dei cartoni animati, quando si trascina completamente sbronzo, se non avesse saputo cosa stava succedendo. Smise di sbattere le ali, e prese a trascinarsi sulle zampette. Lei gli toccò le piume soffici, poi lo prese tra le mani avvertendone il respiro rallentato.

Non avrebbe dovuto sentirsi sconvolta. Questo uccello era un incapace. Meritava di morire invece che riprodursi e tramandare i suoi geni idioti. I suoi istinti non funzionavano. Gli uccelli dovrebbero saperlo che il veleno non si mangia. E allora perché stava piangendo?

L'uccello non si agitò per cercare di liberarsi dalle sue mani. Il suo torace di ossa cave si gonfiava e contraeva molto lentamente. Senza saperlo, lei armonizzò il proprio respiro al suo in una dimostrazione di solidarietà. Lo aveva ucciso. Aveva ucciso l'uccello ritardato.

Meg si chinò fino a sfiorargli il becco con la punta del naso. Lui non si ribellò. Il respiro le si strozzò in gola. Le erano morti due cani, quattro o cinque conigli, e innumerevoli pesci rossi. Escludendo i cani, non aveva mai versato una lacrima. Ma questo uccellino stava diventando freddo. Si irrigidiva. Voleva rimetterlo dove l'aveva trovato. Fingere di non averlo mai visto. Ma non poteva farlo. Non poteva lasciarlo morire da solo. Lo tenne in mano ancora per un paio di minuti, finché non smise di respirare. Poi lo appoggiò delicatamente a terra.

Si strofinò le mani sulla vestaglia. Stava piangendo nel bel mezzo del giardino di casa. I vicini di passaggio in macchina rallentavano per guardare. Si coprì gli occhi con le mani e finse di farsi scudo dal sole. Indossava una vestaglia vecchia di dieci anni con le maniche sdrucite perché la vestaglia buona era da lavare. I capelli in disordine. Freddo ai piedi. Perché erano così freddi? Ah, giusto, non aveva le pantofole. L'uccellino, quell'uccellino così bello. Una cinciallegra.

Una macchina sulla strada rallentò. Miller Walker, capo di Fenstad e direttore dell'ospedale, abbassò il finestrino. «Come te la passi, Meggie?» le gridò. Era uno di quegli stronzi che si inventano soprannomi per le persone, sul genere «il mio compagno d'armi in trincea», «Fennie» e «Meggie». Ogni anno al ballo di Natale le dava un plateale pizzicotto sul sedere, con l'aria di uno che ha fatto un gran bello scherzo. Lei esibì un sorriso fasullo e agitò teatralmente la mano, sperando che fosse troppo distante per vedere le lacrime. Poi Meg Wintrob si voltò così in fretta che sentì una fitta alle anche e corse di nuovo in casa.

 

Fenstad Wintrob scrutava fuori attraverso la finestra appannata. Aveva i muscoli doloranti come se avesse combattuto qualche round con Mike Tyson invece che sognare. I suoi sonni non erano mai tranquilli. Scalciava e gemeva e borbottava, ma la mattina non ricordava niente. Povera Meg. Di tanto in tanto lei gli mostrava un livido che le aveva lasciato su un braccio, o lo svegliava durante la notte perché aveva rubato tutte le coperte. Non l'aveva sentita alzarsi quella mattina, e questo era insolito. Avevano entrambi il sonno leggero. Ma Fenstad sapeva per esperienza recente che, quando voleva, Meg sapeva essere furtiva.

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