Purgatorio (57 page)

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Authors: Dante

BOOK: Purgatorio
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ond’ io levai le mani inver’ la cima   

               
de le mie ciglia, e fecimi ’l solecchio,

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che del soverchio visibile lima.

               
Come quando da l’acqua o da lo specchio   

               
salta lo raggio a l’opposita parte,

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salendo sù per lo modo parecchio

               
a quel che scende, e tanto si diparte

               
dal cader de la pietra in igual tratta,

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sì come mostra esperïenza e arte;

               
così mi parve da luce rifratta

               
quivi dinanzi a me esser percosso;

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per che a fuggir la mia vista fu ratta.

               
“Che è quel, dolce padre, a che non posso

               
schermar lo viso tanto che mi vaglia,”

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diss’ io, “e pare inver’ noi esser mosso?”

               
“Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia   

               
la famiglia del cielo,” a me rispuose:

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“messo è che viene ad invitar ch’om saglia.

               
Tosto sarà ch’a veder queste cose

               
non ti fia grave, ma fieti diletto

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quanto natura a sentir ti dispuose.”

               
Poi giunti fummo a l’angel benedetto,

               
con lieta voce disse: “Intrate quinci

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ad un scaleo vie men che li altri eretto.”   

               
Noi montavam, già partiti di linci,

               
e
“Beati misericordes!”
fue   

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cantato retro, e “Godi tu che vinci!”

               
Lo mio maestro e io soli amendue   

               
suso andavamo; e io pensai, andando,

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prode acquistar ne le parole sue;

               
e dirizza’mi a lui sì dimandando:

               
“Che volse dir lo spirto di Romagna,

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e ‘divieto’ e ‘consorte’ menzionando?”

               
Per ch’elli a me: “Di sua maggior magagna   

               
conosce il danno; e però non s’ammiri

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se ne riprende perché men si piagna.

               
Perché s’appuntano i vostri disiri

               
dove per compagnia parte si scema,

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invidia move il mantaco a’ sospiri.

               
Ma se l’amor de la spera supprema

               
torcesse in suso il disiderio vostro,

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non vi sarebbe al petto quella tema;

               
ché, per quanti si dice più lì ‘nostro,’

               
tanto possiede più di ben ciascuno,

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e più di caritate arde in quel chiostro.”

               
“Io son d’esser contento più digiuno,”   

               
diss’ io, “che se mi fosse pria taciuto,

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e più di dubbio ne la mente aduno.

               
Com’ esser puote ch’un ben, distributo

               
in più posseditor, faccia più ricchi

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di sé che se da pochi è posseduto?”

               
Ed elli a me: “Però che tu rificchi

               
la mente pur a le cose terrene,

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di vera luce tenebre dispicchi.

               
Quello infinito e ineffabil bene   

               
che là sù è, così corre ad amore

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com’ a lucido corpo raggio vene.   

               
Tanto si dà quanto trova d’ardore;   

               
sì che, quantunque carità si stende,

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cresce sovr’ essa l’etterno valore.

               
E quanta gente più là sù s’intende,

               
più v’è da bene amare, e più vi s’ama,

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e come specchio l’uno a l’altro rende.

               
E se la mia ragion non ti disfama,

               
vedrai Beatrice, ed ella pienamente   

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ti torrà questa e ciascun’ altra brama.

               
Procaccia pur che tosto sieno spente,   

               
come son già le due, le cinque piaghe,

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che si richiudon per esser dolente.”

               
Com’ io voleva dicer “Tu m’appaghe,”   

               
vidimi giunto in su l’altro girone,

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sì che tacer mi fer le luci vaghe.

               
Ivi mi parve in una visïone   

   

               
estatica di sùbito esser tratto,

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e vedere in un tempio più persone;   

               
e una donna, in su l’entrar, con atto

               
dolce di madre dicer: “Figliuol mio,

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perché hai tu così verso noi fatto?

               
Ecco, dolenti, lo tuo padre e io

               
ti cercavamo.” E come qui si tacque,

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ciò che pareva prima, dispario.

               
Indi m’apparve un’altra con quell’ acque   

               
giù per le gote che ’l dolor distilla

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quando di gran dispetto in altrui nacque,

               
e dir: “Se tu se’ sire de la villa   

               
del cui nome ne’ dèi fu tanta lite,

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e onde ogne scïenza disfavilla,

               
vendica te di quelle braccia ardite

               
ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto.”

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E ’l segnor mi parea, benigno e mite,

               
risponder lei con viso temperato:

               
“Che farem noi a chi mal ne disira,

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se quei che ci ama è per noi condannato?”

               
Poi vidi genti accese in foco d’ira   

               
con pietre un giovinetto ancider, forte   

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gridando a sé pur: “Martira, martira!”   

               
E lui vedea chinarsi, per la morte

               
che l’aggravava già, inver’ la terra,

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ma de li occhi facea sempre al ciel porte,   

               
orando a l’alto Sire, in tanta guerra,   

               
che perdonasse a’ suoi persecutori,

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con quello aspetto che pietà diserra.

               
Quando l’anima mia tornò di fori   

   

               
a le cose che son fuor di lei vere,

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io riconobbi i miei non falsi errori.

               
Lo duca mio, che mi potea vedere   

               
far sì com’ om che dal sonno si slega,

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disse: “Che hai che non ti puoi tenere,

               
ma se’ venuto più che mezza lega

               
velando li occhi e con le gambe avvolte,

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a guisa di cui vino o sonno piega?”

               
“O dolce padre mio, se tu m’ascolte,   

               
io ti dirò,” diss’ io, “ciò che m’apparve

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quando le gambe mi furon sì tolte.”

               
Ed ei: “Se tu avessi cento larve   

               
sovra la faccia, non mi sarian chiuse

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le tue cogitazion, quantunque parve.

               
Ciò che vedesti fu perché non scuse   

               
d’aprir lo core a l’acque de la pace

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che da l’etterno fonte son diffuse.

               
Non dimandai ‘Che hai?’ per quel che face   

               
chi guarda pur con l’occhio che non vede,

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quando disanimato il corpo giace;

               
ma dimandai per darti forza al piede:

               
così frugar conviensi i pigri, lenti

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ad usar lor vigilia quando riede.”

               
Noi andavam per lo vespero, attenti   

               
oltre quanto potean li occhi allungarsi

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contra i raggi serotini e lucenti.

               
Ed ecco a poco a poco un fummo farsi

               
verso di noi come la notte oscuro;

               
né da quello era loco da cansarsi.

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Questo ne tolse li occhi e l’aere puro.

PURGATORIO XVI

               
Buio d’inferno e di notte privata   

               
d’ogne pianeto, sotto pover cielo,

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quant’ esser può di nuvol tenebrata,

               
non fece al viso mio sì grosso velo

               
come quel fummo ch’ivi ci coperse,

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né a sentir di così aspro pelo,

               
che l’occhio stare aperto non sofferse;

               
onde la scorta mia saputa e fida   

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mi s’accostò e l’omero m’offerse.

               
Sì come cieco va dietro a sua guida   

               
per non smarrirsi e per non dar di cozzo

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in cosa che ’l molesti, o forse ancida,

               
m’andava io per l’aere amaro e sozzo,

               
ascoltando il mio duca che diceva

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pur: “Guarda che da me tu non sia mozzo.”

               
Io sentia voci, e ciascuna pareva

               
pregar per pace e per misericordia

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l’Agnel di Dio che le peccata leva.

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