Purgatorio (52 page)

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Authors: Dante

BOOK: Purgatorio
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Da Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri

               
anzi ad aprir ch’a tenerla serrata,

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pur che la gente a’ piedi mi s’atterri.”

               
Poi pinse l’uscio a la porta sacrata,

               
dicendo: “Intrate; ma facciovi accorti   

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che di fuor torna chi ’n dietro si guata.”

               
E quando fuor ne’ cardini distorti   

               
li spigoli di quella regge sacra,   

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che di metallo son sonanti e forti,

               
non rugghiò sì né si mostrò sì acra

               
Tarpëa, come tolto le fu il buono

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Metello, per che poi rimase macra.

               
Io mi rivolsi attento al primo tuono,   

               
e
“Te Deum laudamus”
mi parea

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udire in voce mista al dolce suono.

               
Tale imagine a punto mi rendea

               
ciò ch’io udiva, qual prender si suole

               
quando a cantar con organi si stea;

145
         
ch’or sì or no s’intendon le parole.

PURGATORIO X

               
Poi fummo dentro al soglio de la porta   

               
che ’l mal amor de l’anime disusa,

3
             
perché fa parer dritta la via torta,

               
sonando la senti’ esser richiusa;

               
e s’io avesse li occhi vòlti ad essa,

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qual fora stata al fallo degna scusa?

               
Noi salavam per una pietra fessa,   

               
che si moveva e d’una e d’altra parte,

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sì come l’onda che fugge e s’appressa.

               
“Qui si conviene usare un poco d’arte,”

               
cominciò ’l duca mio, “in accostarsi

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or quinci, or quindi al lato che si parte.”

               
E questo fece i nostri passi scarsi,

               
tanto che pria lo scemo de la luna

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rigiunse al letto suo per ricorcarsi,

               
che noi fossimo fuor di quella cruna;

               
ma quando fummo liberi e aperti

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sù dove il monte in dietro si rauna,

               
ïo stancato e amendue incerti   

               
di nostra via, restammo in su un piano

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solingo più che strade per diserti.

               
Da la sua sponda, ove confina il vano,   

               
al piè de l’alta ripa che pur sale,

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misurrebbe in tre volte un corpo umano;

               
e quanto l’occhio mio potea trar d’ale,

               
or dal sinistro e or dal destro fianco,

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questa cornice mi parea cotale.

               
Là sù non eran mossi i piè nostri anco,

               
quand’ io conobbi quella ripa intorno

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che dritto di salita aveva manco,   

               
esser di marmo candido e addorno   

               
d’intagli sì, che non pur Policleto,

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ma la natura lì avrebbe scorno.

               
L’angel che venne in terra col decreto   

               
de la molt’ anni lagrimata pace,

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ch’aperse il ciel del suo lungo divieto,

               
dinanzi a noi pareva sì verace

               
quivi intagliato in un atto soave,

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che non sembiava imagine che tace.

               
Giurato si saria ch’el dicesse
“Ave!”
;

               
perché iv’ era imaginata quella

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ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;

               
e avea in atto impressa esta favella

               
“Ecce ancilla Deï,”
propriamente

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come figura in cera si suggella.

               
“Non tener pur ad un loco la mente,”   

               
disse ’l dolce maestro, che m’avea

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da quella parte onde ’l cuore ha la gente.

               
Per ch’i’ mi mossi col viso, e vedea

               
di retro da Maria, da quella costa

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onde m’era colui che mi movea,

               
un’altra storia ne la roccia imposta;

               
per ch’io varcai Virgilio, e fe’mi presso,

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acciò che fosse a li occhi miei disposta.

               
Era intagliato lì nel marmo stesso   

               
lo carro e ’ buoi, traendo l’arca santa,   

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per che si teme officio non commesso.

               
Dinanzi parea gente; e tutta quanta,

               
partita in sette cori, a’ due mie’ sensi

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faceva dir l’un “No,” l’altro “Sì, canta.”   

               
Similemente al fummo de li ’ncensi

               
che v’era imaginato, li occhi e ’l naso

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e al sì e al no discordi fensi.

               
Lì precedeva al benedetto vaso,

               
trescando alzato, l’umile salmista,   

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e più e men che re era in quel caso.

               
Di contra, effigïata ad una vista   

               
d’un gran palazzo, Micòl ammirava

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sì come donna dispettosa e trista.

               
I’ mossi i piè del loco dov’ io stava,

               
per avvisar da presso un’altra istoria,

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che di dietro a Micòl mi biancheggiava.

               
Quiv’ era storïata l’alta gloria   

   

               
del roman principato, il cui valore

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mosse Gregorio a la sua gran vittoria;   

               
I’ dico di Traiano imperadore;   

               
e una vedovella li era al freno,   

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di lagrime atteggiate e di dolore.

               
Intorno a lui parea calcato e pieno

               
di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro

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sovr’ essi in vista al vento si movieno.

               
La miserella intra tutti costoro   

               
pareva dir: “Segnor, fammi vendetta

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di mio figliuol ch’è morto, ond’ io m’accoro”;

               
ed elli a lei rispondere: “Or aspetta

               
tanto ch’i’ torni”; e quella: “Segnor mio,”

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come persona in cui dolor s’affretta,

               
“se tu non torni?”; ed ei: “Chi fia dov’ io,

               
la ti farà”; ed ella: “L’altrui bene

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a te che fia, se ’l tuo metti in oblio?”;

               
ond’ elli: “Or ti conforta; ch’ei convene

               
ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova:

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giustizia vuole e pietà mi ritene.”

               
Colui che mai non vide cosa nova   

               
produsse esto visibile parlare,

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novello a noi perché qui non si trova.

               
Mentr’ io mi dilettava di guardare   

               
l’imagini di tante umilitadi,

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e per lo fabbro loro a veder care,

               
“Ecco di qua, ma fanno i passi radi,”   

               
mormorava il poeta, “molte genti:

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questi ne ’nvïeranno a li alti gradi.”

               
Li occhi miei, ch’a mirare eran contenti   

               
per veder novitadi ond’ e’ son vaghi,

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volgendosi ver’ lui non furon lenti.

               
Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi   

               
di buon proponimento per udire

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come Dio vuol che ’l debito si paghi.

               
Non attender la forma del martìre:

               
pensa la succession; pensa ch’al peggio

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oltre la gran sentenza non può ire.

               
Io cominciai: “Maestro, quel ch’io veggio   

               
muovere a noi, non mi sembian persone,

114
         
e non so che, sì nel veder vaneggio.”

               
Ed elli a me: “La grave condizione

               
di lor tormento a terra li rannicchia,

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sì che ’ miei occhi pria n’ebber tencione.

               
Ma guarda fiso là, e disviticchia

               
col viso quel che vien sotto a quei sassi:

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già scorger puoi come ciascun si picchia.”

               
O superbi cristian, miseri lassi,   

               
che, de la vista de la mente infermi,

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fidanza avete ne’ retrosi passi,

               
non v’accorgete voi che noi siam vermi

               
nati a formar l’angelica farfalla,

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che vola a la giustizia sanza schermi?

               
Di che l’animo vostro in alto galla,

               
poi siete quasi antomata in difetto,   

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sì come vermo in cui formazion falla?

               
Come per sostentar solaio o tetto,   

               
per mensola talvolta una figura

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si vede giugner le ginocchia al petto,

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