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Authors: Sarah Langan

Virus (11 page)

BOOK: Virus
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«Avevo pensato che quando lui mi avrebbe trovata sarei sembrata una Grace Kelly o roba del genere» rise. Il suono echeggiò in modo sinistro. «Ma sa, a quel punto la mia pelle sarebbe stata tutta vizza e screpolata. E poi sono ingrassata almeno tre chili. Si sarebbe spaventato a morte, vedendomi conciata così. E se lo sarebbe meritato. Per il resto della vita si sarebbe pentito di quello che mi aveva fatto.

«Non so. Ho deciso di non tagliare l'altro polso. Poi ho cercato di fermare il sangue.» Sollevò il braccio. «Una garza di quei kit di pronto soccorso per bambini. Probabilmente più sporca della carta igienica, ma sa come sono fatta, non sono capace di prendermi cura di me.» Aveva le dita pallide, ciascuna delle lunghe unghie perfettamente laccata di smalto rosso. «E poi ho visto il Robitussin e ho pensato, be', almeno non è permanente, e nessuno lo verrà a sapere. E questo è quanto.»

«Posso vederle il braccio?» domandò lui.

Lei chiuse il pugno e si srotolò la manica fino a nascondere la ferita.

«Sono un medico. Se serve qualcosa, posso farlo io.» Lei non si mosse, e lui capì che al contrario di quanto aveva sempre pensato, non si fidava di lui neanche lontanamente. «Lila, sia ragionevole. Potrebbe essersi infettata.»

Lei alzò le spalle e, dopo un po', distese il braccio. Distolse lo sguardo mentre lui sollevava la manica, dandogli la sensazione di essere in procinto di fare qualcosa di vergognoso e troppo intimo.

Gli angoli della garza erano incrostati di pus giallastro, e probabilmente brulicavano di batteri. Lui tagliò i margini semistaccati con un paio di forbici, poi la bagnò con l'acqua ossigenata del kit di pronto soccorso che teneva nell'ultimo cassetto della scrivania. Poco alla volta staccò il cotone dal coagulo. La ferita si riaprì e riprese a sanguinare, ma solo superficialmente. Il taglio era una fessura profonda, come una bocca perpendicolare, e la pelle che la circondava non si era rimarginata. Il gesto era stato perfetto, aveva aperto quasi dieci centimetri di arteria. Se si fosse addormentata in quella vasca, non si sarebbe risvegliata più.

Rifece la fasciatura con altra garza, poi la chiuse con il nastro chirurgico. Sarebbe rimasta una lunga cicatrice e avrebbe dovuto suturarla un chirurgo, ma ormai era troppo tardi. Le consegnò un tubetto di crema antibiotica da portare da casa. «Avrebbe dovuto chiamarmi» disse.

Lei annuì. «Non volevo disturbare. Lo so che parlo troppo.» Ci fu un lampo di intesa tra loro, e lui capì di rappresentare per lei il marito assente, il padre, il fratello, il figlio. Stava cercando di punirli tutti. Stava cercando di punire anche lui.

«Non crede sia meglio restare in ospedale per un po'?»

Lei scosse la testa. «No. Non lo rifarò.»

«Lila, questa faccenda è importante» disse lui. «Sono felice che me ne abbia parlato, ma temo per la sua incolumità, e per quella dei suoi figli.»

Lei si aprì in un gran sorriso, e riprese i suoi modi seduttivi. La rapidità della transizione lo allarmò. Piegò la testa di lato come una ragazzina a un ballo delle debuttanti che parli allo scapolo più promettente in sala. «Oh, dottor Wintrob, glielo prometto, non ci proverò mai più. Sul serio. È stata colpa del telegiornale. Smetterò di guardarlo.»

Fenstad rifletté. Sapeva che avrebbe dovuto farla ricoverare per la notte. Ma lei non aveva né famiglia né amici, quindi avrebbe dovuto chiamare l'ex marito perché venisse a prendere i bambini. Aran Senior non aspettava che una scusa per denunciarla e ottenere la piena custodia. Questa sarebbe stata l'occasione ideale. Lila sarebbe crollata sotto stress e avrebbe abdicato ai suoi diritti sui bambini. La spirale discendente che lui si stava tanto sforzando di impedire sarebbe scattata. Prese una decisione.

«Voglio che lei continui a tenere il suo diario. Voglio che scriva ciò che sente quando prova il desiderio di bere o di farsi del male. Lo farà? E me lo porterà da leggere la settimana prossima?»

Lei annuì.

L'ora era terminata da cinque minuti, così lui aprì il cassetto e le prescrisse una cura di sette giorni con il sedativo Stelazina. «Questo dovrebbe calmarle i nervi.»

Lei ripiegò la ricetta e la infilò con discrezione nel borsellino come si trattasse di un numero di telefono. «Voglio che mi chiami se avverte l'imminenza di qualcos'altro del genere» disse lui.

«Naturalmente, dottor Wintrob» rispose lei. Il suo sorriso era ampio e vacuo. Sembrò non accorgersi che la crema le aveva lasciato una macchia unta sulla manica della camicetta di seta bianca. Il suo segreto era sotto gli occhi di tutti, e lei nemmeno lo sapeva. Lui si sentì sorpreso e un po' a disagio per la pietà che provava. Questo lo fece dubitare della sua decisione; sarebbe stato meglio ricoverarla.

Stava per comunicarglielo, quando la sua segretaria fece irruzione nella stanza e gli annunciò che sua moglie era stata aggredita.

 

6.

Il coro della malinconia

 

Alle sette di quel martedì a Corpus Christi il giorno stava già tramontando. Il sole calava all'orizzonte, e i lampioni gettavano una luce giallastra. I negozi accendevano le insegne al neon con la scritta APERTO e i dipendenti dell'ospedale che terminavano il turno diurno abbassavano i finestrini lungo la strada di casa per godere del fresco della sera. Sulla pista di atletica del liceo si allenavano adolescenti magri e muscolosi. Le giornate si erano fatte più brevi dalla fine di agosto. Il buio precoce portava con sé una malinconia che faceva rimpiangere l'estate lasciata alle spalle, e l'inverno inevitabilmente a venire. La sensazione era quella di un brivido lungo la nuca; il piacere veniva soppiantato dai buoni propositi, la programmazione del lavoro si sostituiva ai bicchieri di Stoli e tonica in giardino.

Lois Larkin era l'eccezione alla regola. Non pensava alle lezioni da preparare, alle domande di dottorato che stavano per scadere, né al progetto di andare in ginocchio quella sera fino alla porta di Ronnie per implorarlo di riprenderla con sé. Pensava al ragazzino che aveva smarrito. Il ragazzino senza giacca né sciarpa, che ormai stava sicuramente tremando dal freddo. Ma a James Walker potevano accadere cose ben peggiori che sentirsi scorrere un brivido lungo la nuca.

Lois era raggomitolata in posizione fetale sul sedile posteriore della Dodge blu del capo della polizia. Voleva chiudere gli occhi e scoprire che tutto era sparito. Voleva un miracolo. Una piccola parte di lei voleva morire.

Quand'era tornata a scuola quel pomeriggio, un rapido appello aveva dato un totale di venticinque invece che ventisei. Ci aveva impiegato qualche secondo, non riusciva a credere a quanto fosse stata stupida, non
voleva
crederci, ma poi aveva ricontato gli allievi, e le era venuto in mente il piccolo rompiscatole che aveva respinto il compagno di gita, e prima ancora di chiamare il suo nome senza ottenere risposta aveva capito che James Walker era scomparso.

Aveva mandato i bambini in classe con Janice Fischer, e chiesto all'autista del pullman di ritornare ai boschi di Bedford. L'istinto le diceva che James le stava facendo uno scherzo. Non era ancora preoccupata, solo furente che l'avesse fregata.

La tappa successiva era il preside, Carl Fritz. Carl aveva quarant'anni, era scapolo, e i suoi calzini erano sempre abbinati alle sgargianti camicie fantasia che ordinava da Bluefly.com. Lo aveva etichettato come gay fino al giorno in cui le aveva detto che lei non era consapevole del proprio valore. Il suo sguardo aveva indugiato sui seni, e lei aveva compreso che il suo interesse non era affatto fraterno.

Quando raccontò a Carl l'accaduto, lui si lasciò cadere faccia avanti sulla scrivania in modo lento e teatrale, con un gemito simile a quello di un rospo infoiato. Poi si sollevò e si mise a ridisporre i pupazzetti dei Simpson che teneva allineati sul tavolo. Non aveva mai tolto le etichette, convinto che un giorno ci avrebbe guadagnato una fortuna rivendendoli su eBay. «Te lo sei
perso
?» domandò di nuovo, casomai Lois potesse rispondergli che si era spiegata male e che, in realtà, quello che chiedeva era una settimana di ferie.

«Sì, Carl» disse lei, anche se fino ad allora lo aveva sempre chiamato solo signor Fritz, tanto per mantenere le giuste distanze. «Proprio così.»

Lui non la guardò. Passò in rassegna le foto dei concorsi annuali di dibattito dal 1972, il poster vintage di
Cantando sotto la pioggia
,
e infine posò lo sguardo sulle proprie mani tremanti e perfettamente curate.

«Ho spedito il pullman a prenderlo, ma per scicurezza dovremmo telefonare alla polizia e alla famiglia. James è un burlone, sciolo che i suoi scherzi sono crudeli. Sci terrà nascosto finché non deciderà di scialtare fuori.»

Carl non fece nemmeno un gesto, e i secondi passavano. Lei sollevò il ricevitore del telefono e premette il secondo pulsante dei numeri preregistrati, che Carl aveva voluto inserire a tutti i costi dopo i fatti di Columbine. «Parlaci tu. Dovresti essere tu a dare la comunicazione» gli disse, passandogli la cornetta. Dopo una pausa drammatica, lui se lo portò all'orecchio.

Quella era la telefonata più facile. Non appena pronunciato il cognome Walker, Carl venne messo direttamente in comunicazione con Tim Carroll, il capo della polizia. Tim gli ordinò di raggiungerlo immediatamente al bosco. La seconda telefonata era più spinosa. Questo bisognava riconoscerglielo: Carl non si perse in preamboli quando Miller Walker rispose alla chiamata. Anzi, si lasciò sfuggire tutto d'un fiato: «Suo figlio non era sul pullman al ritorno dalla gita. Stiamo tornando a Bedford a prenderlo. Sono certo che sta benissimo. Volevo solo informarla».

La risposta di Walker, che Lois era abbastanza vicina da riuscire a sentire, fu scevra di esitazione: «Voglio le dimissioni di quella maestra entro la fine della giornata» disse. Probabilmente aveva detto
quella maestra
perché non ne conosceva nemmeno il nome.

«Naturalmente» rispose Cari stringendosi simultaneamente nelle spalle in direzione di Lois come per dirle:
Mi dispiace, tesoro, ma qui ci rimetto la testa.

Partirono per i boschi di Bedford a bordo della Audi verde di Carl. Giunti sul posto non trovarono James ad aspettarli al tavolo da picnic dove erano rimaste tutte le briciole, e il torsolo di mela che lei aveva lasciato era già diventato marrone. Lois provò una stretta allo stomaco, ma contenne la preoccupazione: bisognava rintracciare il ragazzo.

Poco dopo arrivarono tutti e sette i membri permanenti del dipartimento di polizia. Insieme perlustrarono il bosco. Lois toccò le tracce fresche lasciate dal pullman della scuola, a caccia di indizi. Dopo circa due ore, Miller Walker e sua moglie accostarono a bordo di una Mercedes diesel rossa. Felice rimase in auto mentre Miller si prese un momento per raddrizzare la cravatta, lanciò uno sguardo di fuoco a Lois, e si unì alle ricerche.

Persino allora, non aveva ancora afferrato in pieno la verità. Pensava a Ronnie, a Noreen, all'annuncio di nozze sul giornale di quella mattina. Pensava che tornando a casa avrebbe dovuto fermarsi in farmacia a comprare un test di gravidanza. Pensava a sua madre, probabilmente già sbronza, e a come ai suoi occhi questa faccenda di James avrebbe costituito l'ennesima prova che il mondo intero tramava contro di lei.

Nel giro di tre ore la temperatura era precipitata sotto i cinque gradi. L'ansia annidata nel suo stomaco l'aveva invasa per intero. Si era diffusa come un prurito che non riusciva ad alleviare. Nessun ragazzino avrebbe resistito nascosto tanto a lungo, nemmeno un deficiente come James. Doveva essersi perso. E se non fosse stato così? E se fosse stato aggredito da un animale selvatico, oppure rinchiuso nel baule dell'auto di un pedofilo che ora si dirigeva a tutta velocità verso il confine con il Canada? Si era persa un bambino. Un bambino affidato alla sua responsabilità poteva essere stato ferito o rapito o peggio.

Alle sei di sera più di venti persone setacciavano la zona. Vigili del fuoco volontari, membri dell'associazione genitori della scuola, e i vicini e gli amici di Miller Walker calpestavano il terreno. Gli aghi di pino e le schegge di vetro sparpagliate restavano confitti come fossili nelle orme lasciate dalle suole degli scarponi.

Al crepuscolo, Tim Carroll allargò il perimetro delle ricerche. Come in una partita di scacchi viventi, si disposero in un lungo schieramento tenendosi a distanze non superiori ai cinque metri l'uno dall'altro e cominciarono a camminare urlando richiami mentre avanzavano attraverso il bosco. La ricerca di Lois era febbrile. Il prurito le si era esteso dallo stomaco al petto e alle gambe, le aveva raggiunto persino la gola. Il bosco risuonava di passi, il ragazzo era sparito: un vero casino, il suo casino. Doveva trovare James Walker. Doveva aggiustare le cose. Ma scese il buio, vennero le sette, e James ancora non si trovava.

Fu tentata di mettersi in ginocchio a pregare, ma non lo fece. Se gli altri non avevano intuito la gravità della situazione, vedendola prostrata in preghiera avrebbe forse suscitato qualche sospetto. Quelli dell'associazione genitori potevano dire quel che volevano; gli alberi qui sembravano cartocci di mais vuoti. Non c'era più segno di vita in quel bosco! Niente uccelli. Niente cervi. Niente di niente. E se a James fosse venuta sete e avesse bevuto acqua contaminata, o mangiato foglie intrise di Dio sa cosa? Quel bosco pullulava di pazzi. Autentici indigeni di Bedford. Gente che abbandonava le auto alla ruggine nel giardino davanti a casa, e appendeva effigi di impiccati ai lati di una roulotte. Gente capace di restare in una città fantasma contaminata molto dopo che i sani di niente l'avevano abbandonata.

Cominciò a perdere il controllo. Un casino. La sua vita era un casino. Passi essere una perdente, ma rovinare la vita di un ragazzino è tutt'altro paio di maniche. James era sparito da sei ore, e non avevano ancora trovato niente. Non un brandello dei suoi vestiti. Non una ciocca di capelli, nemmeno un contenitore di succo di frutta. Nulla.

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