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Authors: Sarah Langan

Virus (13 page)

BOOK: Virus
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Tutto intorno vide carcasse di animali. Opossum, uccelli, il cerbiatto che quella mattina aveva visto rovistare nel cassonetto in cerca di cibo. Il suo sguardo vitreo e perduto la fissava. In quell'istante ricordò dove si trovava, e ciò che stava facendo, ciò che aveva fatto. Un verme si contorceva nella fessura tra i suoi denti. Lei tossì convulsa, stritolandolo. Se lo sputò sulla mano, insieme a un'altra boccata di fango. Poi si fermò.

Sul palmo si era sputata anche qualcosa di solido. Piegò le dita, e la cosa rotolò. Il volto avvampò, e con un'intensità più forte di quanta ne avesse mai provata in vita sua lei sperò che quel preciso istante non stesse accadendo. Era qualcosa di rotondo e piccolo. Molle ma elastico. La pelle si staccava dall'osso, e aveva perso l'unghia, ma la forma era inequivocabile: era il mignolo del piede di un bambino.

Aprì la bocca a un altro singhiozzo arido, solo che questa volta ne uscì un grido.

 

7.

Non abbandonarmi, mia cara

 

«Sua moglie è in terapia intensiva. L'hanno portata in ambulanza» annunciò la segretaria di Fenstad, Val Pliner. Lui chiuse le palpebre, e ripeté le parole mentalmente un paio di volte per essere sicuro di averle capite. Sua moglie non si ammalava mai, e se accadeva teneva le prove della propria fragilità (fazzoletti e pastiglie anti-influenzali) nascoste nella borsa come un vizio segreto. Doveva esserci un errore.

«È sicura che si tratti di Meg?»

I folti capelli grigi di Val erano raccolti da un elastico in una coda di cavallo, se non attraente, pratica. Annuì. Aveva sulla fronte un'impronta di inchiostro a forma di pollice, e fu lì che lui concentrò lo sguardo cercando di mantenere la calma. «Mi hanno telefonato dall'accettazione non appena hanno letto il suo cognome in cartella» disse Val. I Wintrob erano una delle dieci famiglie ebree della città, la gente tendeva a ricordare il loro nome.

«È ferita?»

«È stata aggredita. Non so da chi.»

Fenstad vide il colore rosso. Gli invase gli occhi e sgocciolò sul pavimento. Gli si raccolse in una pozza intorno alle scarpe ingoiandole come una bocca assetata. Era di nuovo bambino a Wilton, Connecticut.
Cic-ciac
,
faceva la moquette intrisa di sangue. Fece un respiro. Lei stava bene. Fece un altro respiro, e il sangue sparì. Fece un ultimo respiro, e si impose di non fare caso a quel martellare che aveva nel petto. «Cos'è successo?» domandò quando fu certo che non gli si incrinasse la voce.

Lila si attardava all'ingresso. «Dottor Wintrob?» domandò. La blusa era umida di unguento, e lui sapeva che avrebbe voluto dirle una cosa, ma adesso non se la ricordava.

«Ci vediamo la settimana prossima», disse.

I lineamenti delicati di Lila si indurirono. «Ma...» replicò.

Lui scosse la testa. «Non ora.»

Lila superò Val e si incamminò lungo il corridoio. I suoi tacchi battevano un ritmo irregolare, come se avesse le scarpe di una misura troppo grande. Fenstad sapeva che avrebbe dovuto rincorrerla, ma non riusciva. Aveva il petto oppresso da un peso che lo soffocava, e nella sua mente il pavimento era allagato di sangue. «È grave?»

Val si strinse impotente nelle spalle. «Non so altro. L'hanno ricoverata d'urgenza. Posso richiamarli, chiedere altri dettagli.»

Quest'ultima parte la sentì a malapena. Non riuscì nemmeno a dirle che non aveva il tempo di aspettare una telefonata. Se ne stava già andando. Il reparto di terapia intensiva era a sei corridoi, tre cambi di colore nel nastro sulle pareti, e un piano di distanza. Non se ne rendeva conto, ma correva. Le sue scarpe di cuoio stridevano sul pavimento come quelle dei giocatori di pallacanestro che si allenano in palestra.

Era stato quella merda di Graham Nero. Chi altri sennò? Era da un pezzo che aveva in mente di fare visita a Graham, di spiegargli un paio di cosette, a quel figlio di puttana. Ma intanto il tempo passava, la sua rabbia si era condensata in gelido buonsenso, e aveva lasciato perdere: la decisione peggiore che avesse mai potuto prendere.

Quel bastardo arrogante. Probabilmente organizzava tutto da mesi. Si appostava fuori dalla casa, a spiare. Ad attendere il momento giusto. E poi questa mattina aveva visto Meg in giardino, si era accorto che non portava le mutande. Quando Fenstad era andato al lavoro e Maddie a scuola, aveva imboccato il vialetto con passo tranquillo. Aveva aperto la porta sul retro manco fosse lui a pagare il mutuo della casa, signore e padrone del merdoso universo. Probabilmente lei stava lavando i piatti quando lui l'aveva presa di sorpresa alle spalle. Il radiogiornale del mattino probabilmente aveva coperto il rumore dei suoi passi. Graham era troppo astuto per usare una pistola. Più probabilmente aveva afferrato il coltello seghettato dal portapane, lo stesso che Fenstad aveva usato quella mattina per affettare il pane della colazione, e glielo aveva premuto contro il collo.

Fenstad si precipitò dal nastro blu a quello rosso. Scivolò oltre un'infermiera grassa che indossava un camice rosa pallido, e due pazienti sdraiati sulle lettighe contro la parete. Il suo respiro era rapido e sibilava, più forte dei suoi stessi pensieri. Graham Nero. Se lo immaginò mentre strappava la vestaglia di sua moglie. Graham Nero. Se lo immaginò mentre la sbatteva sul pavimento di cucina. Graham Nero. Se li immaginò a letto al Motel 6, stanza 69.

Era madido di sudore quando arrivò in terapia intensiva. Cyril Patrikakos, il culturista in accettazione, non aprì neanche bocca quando Fenstad gli sfrecciò davanti. Indicò la camera 132. Fenstad si precipitò dentro. Sul letto un corpo pesto e sanguinolento era attaccato alla flebo. Fenstad non riusciva a distinguere il volto del paziente. Troppi camici bianchi affollavano la stanza. Gli uscì un respiro come aria da un pallone bucato, e le ginocchia gli cedettero costringendolo ad appoggiarsi al muro. Scivolò con la schiena fino a trovarsi accosciato. Quella merda di Graham Nero. Nella sua mente, il pastore tedesco del vicino abbaiava e il pavimento era coperto di sangue.

Trasalì quando qualcuno gli sfiorò la spalla. Meg. Lui balbettò qualcosa. Meg! Si reggeva su un paio di stampelle di alluminio, e aveva la gamba sinistra chiusa in un gesso di fibra di vetro ancora fresco.

«Hai fatto in fretta. Stavo per chiamarti.» I suoi capelli normalmente stirati si erano arruffati in ricci spettinati, e dalla camicetta le mancava un bottone. Lui circondò le stampelle con le braccia e la strinse forte. Inspirò profondamente il suo sudore salato fino a che in parte non l'ebbe fatto suo. Poi la accompagnò nel corridoio illuminato. Una volta fuori, le chiese: «Cos'è successo?».

Lei scosse la testa. «Mi dispiace. Ti sei preoccupato? Avevo in mente di chiamarti.»

Lui sapeva che non era vero. A Meg non piaceva appoggiarsi alle persone, soprattutto a lui. Più probabilmente aveva pensato di tornarsene a casa dritta dall'ospedale, cucinare la cena come al solito, e quando lui le avesse fatto notare quella sera che aveva una gamba rotta, gli avrebbe detto qualcosa del tipo: «Questa sciocchezza? Non la sento nemmeno».

«Tu hai nove vite. Lo sapevo che stavi bene» disse lui. «Cos'è successo?»

Lei si strinse nelle spalle. «È successo che mi hanno gonfiata di botte.»

Fenstad contrasse la mandibola talmente forte che all'istante gli venne un'emicrania. Riuscì comunque a conservare un tono leggero. «Chi?»

«Albert Sanguine ha dato di matto» gli spiegò lei. «Così l'ho colpito con il catenaccio di una bicicletta.»

«Albert?»

Lei annuì. «La biblioteca è devastata. Potrò considerarmi fortunata se il comune non mi licenzia.»

Fenstad scrutò all'interno della stanza d'ospedale, dove un monitor cardiaco produceva un suono irregolare, e poi tornò a guardare sua moglie. «Quello è Albert?»

Lei annuì. Albert era magro ma alto. Quando chiedeva l'elemosina fuori dalla Citibank, racimolava più soldi di chiunque altro per la sua imponenza. Sia Fenstad che sua moglie inclinarono la testa fino a toccarsi con il naso. «L'hai steso con un catenaccio da bicicletta?» bisbigliò lui.

Lei scrollò le spalle. «Non avevo nient'altro sotto mano» disse con tono sarcastico. Dopo una pausa brevissima sorrisero entrambi. Come accadeva spesso, lui si trovò sgomento davanti alla sua bellezza. Meg Wintrob migliorava, e diventava più sicura di sé, con l'età. Lei si appoggiò al suo petto, e lui prese le stampelle in mano.

«Com'è andata?» domandò.

Lei gli raccontò della crisi di nervi di Albert, e poi dell'esplosione. Dopo il resoconto gli disse: «Quel tuo amico internista, Mike Yunes, mi ha detto che il fegato di Albert è, com'è che si dice?»

«Cirrotico» rispose lui.

Lei annuì. «Quando l'ho colpito con il lucchetto, si è spappolato. Ha cominciato a perdere sangue dalla bocca. Mike dice che sarebbe morto comunque. Probabilmente quanto è capitato accorcerà i tempi.»

«Ma tu stai bene?»

Lei annuì. «Più che altro mi sento in imbarazzo. Niente di tutto questo sarebbe accaduto se ti avessi dato retta a proposito di Albert. E anche lui ora starebbe bene.»

«Vero» confermò lui, e il sorriso di lei svanì. Lui si corresse subito. «Ma non ha nessuna importanza. E la tua gamba?»

Lei abbassò lo sguardo. Il gesso si estendeva dalla base del piede fino a sotto il ginocchio, che era gonfio e violaceo. «È la caviglia. Mike dice che la frattura è pulita ma ci vorrà un po' perché guarisca.»

Scosse la testa, sinceramente ammirato. Sua moglie era dura come l'acciaio. «È fratturata?»

«È per questo che mi hanno messo il gesso, Fenstad.»

«Meg, pensavo fosse una storta. A camminarci sopra come hai fatto tu, chiunque altro sarebbe svenuto dal dolore.»

Lei sorrise, soddisfatta di sé. «Mica male.»

Lui dovette ammetterlo. «Mica male davvero.»

Dopo aver rilasciato la sua dichiarazione al vice della polizia di turno (Tim Carroll era impegnato nelle ricerche di James Walker, così toccò a Gabe Simpson), Meg andò in bagno a lavarsi la faccia, e Fenstad tornò alla stanza 132.

Adesso era vuota, se si escludeva la mole accasciata di Albert Sanguine. La cartella clinica agganciata al suo letto dichiarava che un tentativo di riparargli il fegato emorragico avrebbe solo aggravato il trauma, e affrettato il decesso. Fenstad si chinò sul letto. Il respiro lento di Albert gli si strozzò in gola come stesse russando. Puzzava di liquore distillato in casa e della bile che gli intasava l'apparato digerente. Aveva i capelli bianchi pettinati di lato, e la pelle giallastra gli cascava sul volto come pasta di pane. Dimostrava sessant'anni.

Fenstad sospirò. Poco prima, per un momento aveva perso gli ormeggi. Dopo la faccenda con Graham Nero dell'anno precedente perdeva il controllo troppo facilmente. A volte, diventava persino irrazionale. Sapeva di avere un problema, ma era inutile andare a confidare quel genere di cose al primo strizzacervelli di reparto, rischiando di averne in cambio una pessima valutazione psichiatrica. Alla prima occasione in cui avessero fatto il suo nome per la promozione a responsabile del reparto, una cattiva valutazione l'avrebbe certamente intralciato. Lo stipendio era di mezzo milione l'anno. Meg sarebbe stata contenta. Ci contava. Fece un respiro profondo. Aveva avuto una reazione eccessiva, tutto qui. Ma adesso era tutto sotto controllo.

Nel letto, il respiro di Albert si bloccò ancora, ma lui non si svegliò. Qualche mese prima aveva dato un pugno a una volontaria, ma Fenstad non avrebbe mai immaginato fosse capace di aggredire due donne minute e una bambina piccola. Come gli era accaduto quella mattina con Lila, provò una certa vergogna per non avere intuito che potesse accadere, né fatto qualcosa per prevenirlo.

Era stato il medico di Albert per sei anni, e in tutto quel tempo avevano affrontato insieme le sue allucinazioni, il suo tentativo annuale di disintossicarsi dall'alcol e quello di suicidarsi. Nel gruppo di terapia, non blaterava incessantemente di se stesso come tutti gli altri; stava ad ascoltare. Al termine di ogni seduta, per quanto il liquore bevuto la sera prima lo facesse stare male, stringeva la mano a tutti augurando una buona settimana. Aveva classe, il che rendeva ancora più tragico il suo rifiuto di rispettare il regime farmacologico.

Questa violenza non era nella sua natura. Ma d'altra parte, abbiamo tutti un lato oscuro. Fenstad guardò l'uomo che aveva scaraventato sua moglie contro una parete di plexiglass come una bambola di porcellana. Una parte di lui voleva strappargli la flebo di morfina dal braccio, perché capisse che razza di dolore si celasse in quel momento dietro il sorriso di Meg.

Albert aprì gli occhi. Gli ci volle un secondo per mettere a fuoco, ma non appena riconobbe Fenstad il volto gli si indurì in una maschera di sofferenza. «La biblioteca» disse con voce rauca. Cercò di sollevare la testa dal cuscino, senza riuscirci.

«Non agitarti» disse Fenstad. A giudicare dagli occhi infossati e terrei di Albert, dalle sue gengive sdentate, non gli dava un paio di giorni di vita; massimo un paio d'ore.

«La signora Wintrob, è... morta?» domandò.

«Le hai rotto la caviglia.»

La bocca di Albert si raggrinzì in una smorfia di dolore, e le palpebre gli calarono sugli occhi. «Non volevo farle del male» sussurrò. Poi aggiunse: «È sempre tanto gentile con me, io la amo».

A Fenstad si seccò la gola. «In molti amano Meg.»

Albert annuì. Aveva i capelli bianchi come il cuscino, e i pochi denti che gli restavano erano marroni. «Non lo senti quest'odore?»

«Qui sei al sicuro, Albert.»

Albert scosse la testa. «No, non è vero» sussurrò. «L'ho sentito chiamare nel bosco, tu non lo senti?» Poi aprì il pugno tenendo la mano piatta lungo il lato della gamba e agitò le dita. Fenstad gli prese la mano, e la strinse. Di solito non varcava quella barriera fisica con i suoi pazienti, soprattutto con quelli che gli pestavano la moglie, ma di solito i suoi pazienti non erano in agonia.

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