Virus (34 page)

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Authors: Sarah Langan

BOOK: Virus
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Lei lo guardò, ma non disse niente.

Lui proseguì. «Non te l'avevo mai detto perché è contrario alla prassi esprimere opinioni personali, ma voglio che tu sappia che il tuo ex marito è un gran figlio di puttana. Invece quando non ti sforzi di fingere tu sei proprio una brava persona, e vorrei che ci lavorassi in futuro.»

Girò sui tacchi e uscì, lasciando però la porta aperta, in modo che se avesse voluto avrebbe potuto andarsene anche lei. Era importante lasciare un'alternativa alle persone.

Decise che doveva andarsene anche lui. Non gli piaceva affatto la faccenda del virus. Alle grandi menti non era mai capitato niente del genere. Cosa avrebbe fatto Freud nei miei panni? si chiese, e soffocò una risatina. Forse l'uomo giusto a cui chiedere era Jung. Si cacciò in bocca un altro OxyContin e prese a masticare. Tre era il massimo. Se avesse superato il dosaggio avrebbe rischiato un infarto. Lasciò che la pastiglia gli si sciogliesse sulla lingua, e tutto si fece lento e attutito. Gli parve di nuotare in fondo al mare, come un pesce senza emozioni.

Imboccò la porta di servizio, ma non si rivelò una buona idea. Era distratto, ed era sceso un piano di troppo. Aprì la porta del seminterrato, e scoprì dov'erano finiti i corpi. Una montagnetta di ossa bianche e ripulite stava ammucchiata accanto all'inceneritore. A prima vista gli parvero mattoncini eleganti. Si incastravano alla perfezione, una parete di giocattoli di latta. Non si attardò a guardare una seconda volta. Una era più che sufficiente. Gli animali selvatici si comportavano allo stesso modo per delimitare il proprio territorio, o per non lasciare tracce ai predatori. Pensò a come i cani conservassero souvenir delle proprie prede, come un trofeo. Pensò anche a Meg. Mentalmente la nascose in un luogo sicuro dove nessuno potesse toccarla. Avvolse tutta la sua famiglia in una coperta calda, perché trovasse riposo.

Di fronte al muro di ossa c'era un ampio salone che ospitava quanto restava della base operativa del Centro Epidemiologico, separato all'ingresso da una tenda di plastica protetta da una rete metallica. L'aria proveniva da una bocchetta sul soffitto attraverso un sistema di condutture di gomma. Se ne sentiva il ronzio, e lui ne dedusse che l'impianto fosse ancora alimentato dal generatore dell'ospedale. Dietro la rete c'erano file di barelle, per metà occupate. C'erano una cinquantina di pazienti, alcuni malati, altri già morti. Qualcosa si mosse, e il suo cuore gli martellò sordo nel torace insensibile. Fantasmi bianchi passavano tra le fila, raccogliendo anime. Si muovevano come falene, rubando il respiro degli infetti, uno dopo l'altro.

Ebbe un sussulto, e in simultanea i fantasmi alzarono bruscamente le teste verso di lui. Avevano gli occhi dilatati, ed entrambi si leccarono le labbra. Uno era basso, l'altro alto. Camminavano in sincrono. Le loro braccia e le loro gambe ciondolavano goffe mentre si avvicinavano. Lui vide che non erano fantasmi: erano due donne nei camici da laboratorio, candidi come spiriti dell'aldilà.

Si fermarono a un passo dalla rete. Insieme sfiorarono la plastica con le dita, come se la sensazione desse loro piacere. La donna più alta teneva in mano quella che sembrava una coscia di pollo. Strappò la carne dall'osso e masticò rumorosamente.
Smack, smack, smack.
Dio, fa' che sia pollo.

Si guardò intorno in cerca di un'arma. Nessun bisturi a portata di mano. Voleva scappare, ma aveva paura a voltar loro le spalle.

Le donne sorridevano, mostrando denti di un bianco smagliante, e a lui tornò in mente Lois. «Siete del Centro?» domandò, chissà che ricordando la propria identità non si sarebbero comportate come le persone che erano un tempo.

Quella alta continuò a masticare.

«Tecnici di laboratorio» disse quella bassa.

«Appartengo ai servizi speciali. Mi hanno mandato a dare un'occhiata. Com'è la situazione?» chiese lui. Tremava come una foglia.

Alla donna alta cadde il cappuccio da sala operatoria, scoprendo un cranio pallido e calvo. Si mise poi a succhiare l'osso che teneva ancora in mano.

«La mortalità iniziale del trenta per cento è salita al cinquanta in un intervallo di tre giorni. Gli altri... dormono» disse la donna bassa. Dimostrava poco più di vent'anni, e aveva una margherita blu tatuata sull'avambraccio. Era carina, e lui si chiese per un istante che tipo di ragazza fosse stata.

«Origine del virus?»

«Boschi di Bedford» sputò brusca quella alta. Brandelli di pollo schizzarono sulla partizione a rete. «L'infezione si trasmette attraverso sangue e saliva, ma l'odore altera le percezioni sul breve termine, tutte cose di cui lei sarebbe già al corrente se appartenesse davvero all'esercito.» Lui si augurò di nuovo che fosse pollo; lo sperava davvero. Sperava anche che i suoi figli stessero bene.

Lei lasciò cadere l'osso e lo scalciò verso di lui. Scivolò sotto la rete e gli andò a sbattere contro la punta della scarpa da tennis. Poi rotolò più in là, risuonando a ogni rotazione contro il pavimento di granito. Lui lo seguì con lo sguardo, nonostante volesse distoglierlo. Poi ebbe un sospiro di tale sollievo che quasi gli sfuggì un grido. Era davvero una coscia di pollo allo spiedo.

«Nessun caso immune?» domandò.

Loro scossero la testa all'unisono, e dentro di lui qualcosa sprofondò. Sarebbe stato un motivo di speranza. Ma almeno era calmo. Se non altro era impasticcato, così da riuscire a farcela senza mettersi a urlare.

«Perché vi hanno lasciate qui?» domandò.

«L'esperimento.» Avvertì una nota di dolore nella voce della ragazza con il tatuaggio.

«Quale esperimento?»

La donna alta si girò verso i pazienti che ansimavano. Si piegò ad auscultare il cuore di un uomo anziano. Poi si leccò le labbra come se avesse fame, e lui sospettò che il soggiorno di quell'uomo sulla terra si sarebbe concluso presto.

Di soppiatto, la donna con il tatuaggio gli si era avvicinata. Afferrò il punto di ingresso, e strappò via la rete trovandosi faccia a faccia con lui. Le pastiglie lo avevano reso lento. Fece un balzo all'indietro, riuscendoci comunque abbastanza in fretta. L'alito caldo e fetido di lei gli lambì la fronte. La margherita tatuata era deformata, e sotto il gomito, dove avrebbe dovuto esserci il gambo del fiore, il braccio era coperto di cicatrici rozze. Aveva cercato di levarsela, dedusse lui. In un'altra vita, si era strofinata la pelle con la carta vetrata.

Indietreggiò, lei avanzò di un passo. Come in una danza. Camminando produceva un rumore di ferraglia, e lui vide che aveva la caviglia imprigionata da una catena nera fissata alla parete in fondo alla sala. Prima non se n'era reso conto, ma camminando lei aveva raggiunto l'estensione massima che le era concessa. Poteva muoversi nella sala quanto bastava per occuparsi dei pazienti, ma non poteva uscire. Quel qualcosa che poco prima gli era sprofondato dentro cominciò ad annegare del tutto. Cosa diavolo era successo?

«Ti prego» disse lei. Aveva la voce querula, e spaventosamente umana. «Hai parlato con il maggiore Dwight? Voglio tornare a casa.»

«Ho mentito» disse Fenstad. «Non sono dell'esercito.»

«Ti prego» lo implorò la donna. «Lasciami andare.» Forse un tempo era stata bella. Adesso, non le restavano che rade ciocche di capelli, e la pelle le cascava dal viso.

Lui lo disse come una domanda, ma sapeva già che era vero: «Vi siete ammalate, per questo non vi hanno portate via. Vi hanno lasciate qui a monitorare gli altri. Vi hanno abbandonate entrambe».

Là donna con il tatuaggio scosse la testa. Non lo guardò in faccia quando disse: «Ci siamo offerte volontarie per restare».

«Poi ci siamo ammalate» aggiunse quella alta dal fondo della sala.

«Così ci siamo incatenate» disse quella bassa.

«Perché non volevamo fare del male a nessuno» terminò quella alta.

«Siamo infette...»

«Ma non del tutto.»

«Quando l'infezione sarà completa, cammineremo a quattro zampe.»

«Come faceva l'uomo all'inizio, faremo noi alla fine.»

«Non saremo più come prima.»

Erano come una persona sola. Come se per bocca loro fosse il virus a parlare.

Poi quella bassa si chinò. Prese a torcersi la caviglia dentro l'anello di metallo fino a farla sanguinare. Cercava di strapparsi il piede per liberarsi. «Non così» disse lui, intendendo:
Meglio scassinare il lucchetto. Altrimenti perderai la gamba.
Ma intendeva anche:
non fare così: mi fai male.

Lei lasciò andare la caviglia e gridò: «Voglio andare a casa!». La sua voce echeggiò nell'ospedale deserto, e lui temette che risvegliasse gli infetti, o forse solo i fantasmi. La pompa dell'aria ronzava. Era rassicurante, quel macchinario. Non aveva un'anima.

Dall'altra parte della sala, la donna alta lasciò cadere una cartella clinica, e lo caricò correndo a quattro zampe. La sua andatura era impacciata. Le braccia erano troppo corte, e il suo corpo non era abbastanza asciutto. L'effetto era caotico. Per due volte cadde e gli arrivò a pochi centimetri di distanza prima che la catena la frenasse bruscamente.

Rimasero di nuovo l'una accanto all'altra, come sorelle simili ma di diversa statura. Lui le fissò negli occhi neri. Ebbe l'impressione di sentirseli dentro. Lo annegavano. Gli mangiavano l'anima perché avevano perso la loro, e adesso avevano fame. Lo zolfo del loro fiato lo avviluppava. «Fennie, lo senti anche tu?» domandarono all'unisono. «È un nodulo?»

Lui arretrò. Un passo, poi due. Insieme loro reclinarono di lato la testa. Lui non si sentiva più le gambe. Incespicò sulla scala alle sue spalle e rifece la strada a ritroso, sempre carponi.
Un passo, due, tre, stella!

L'ultimo gradino in cima alla scala aveva un colore rosso sangue, ma era solo il nastro. Lui continuò a procedere carponi. Dal rosso al giallo. Sapeva che avrebbe dovuto alzarsi, camminare eretto come un uomo, ma non ci riusciva. Si diresse verso la luce. Verso le porte che si aprivano, si chiudevano e si riaprivano; e Dio, già quello avrebbe dovuto metterlo in guardia. Avrebbero dovuto capirlo che quello era un luogo di dannati.

Nel corridoio alla destra dell'uscita c'era Lila Schiffer. Aveva spinto una serie di barelle fuori da una delle stanze dei malati. Dapprima non riuscì a capire cosa stesse facendo, ma quando si avvicinò ne intuì le intenzioni. Le lacrime le coprivano il volto, ma aveva la mascella contratta. Determinata. Aveva fatto proprio un casino. Il bisturi non è lo strumento adatto ad aprire il torace di un lottatore da centocinquanta chili.

Aran junior era disteso sul lettino. Lila gli frugava le viscere con il bisturi. Fenstad si arrestò di fronte alle barelle, e Lila alzò gli occhi su di lui. Aveva le mani lorde di sangue, fino ai gomiti.

«Sono la loro madre» disse. «Devo farlo. È mio dovere.» Poi si girò verso l'altra barella, e Fenstad seguì il suo sguardo.

L'esperimento su Alice Schiffer era stato più rudimentale di quello su suo fratello. La sua testa era sul pavimento, con gli occhi sbarrati, mentre il corpo sanguinava dal lettino. Lila l'aveva decapitata con la lama ottusa del bisturi. Per fare una cosa del genere serviva forza, e determinazione. Serviva molto olio di gomito.

Fenstad aveva ricominciato a piangere, ma questa volta non si sforzò di nasconderlo. Aveva la pancia insensibile, ma non riusciva a ricordarne il motivo. Pensò che Lila gli avesse scavato con il bisturi nello stomaco. Che fosse suo il corpo sulla barella, con gli intestini sbrogliati. Si diresse gattonando verso le porte che si aprivano e si chiudevano. Le ginocchia gli facevano male, perché un uomo non dovrebbe camminare a quattro zampe.

«Devo assicurarmi che siano morti per sempre» spiegò Lila alle sue spalle. «Le ferite si rimarginano troppo in fretta perché muoiano dissanguati.»

La porta era chiusa. Lui fiutò l'aria aperta. Così vicina. Passò carponi oltre la soglia, e si ritrovò sotto la pioggia. Poi un cane cominciò ad abbaiare. Di nuovo quel cane del cazzo. No, non era il cane, era lui. Piangeva in lunghi latrati. Era uscito, grazie a Dio, era fuori. Piangeva di sollievo.

La sua auto era là. Enorme, ingombrante. Ancora in ginocchio, dapprima non la riconobbe. Sentì tintinnare le chiavi nella tasca. Le tirò fuori e salì in macchina. Accese il motore. L'odore al suo interno era buono, un balsamo. L'odore al suo interno era di libertà. Pensò che se si fosse fatto saltare le cervella in quel momento sarebbe morto felice.

Uscì dal parcheggio. Ma come la moglie di Lot, non poté trattenersi. Si voltò a guardare ancora una volta oltre l'ingresso. Le porte si aprirono rivelando le mani perfettamente curate di Lila. Brandiva alto il bisturi. Sulla punta c'era il cuore di Aran junior.

 

26.

Giulietta, danzatrice del ventre

 

Gli occhi di Maddie erano arrossati e gonfi. Aveva passato la notte in bianco. Avrebbe dovuto incontrare Enrique alla stazione degli autobus, ma non sapeva a che ora fosse la partenza da Corpus Christi, e lui non rispondeva più al cellulare. Attese fino alle nove di domenica mattina, poi telefonò ai suoi genitori. La linea era muta. Perché l'aveva lasciato andare la scorsa notte? Avrebbe dovuto dissuaderlo; l'esercito non l'avrebbe voluto ora che era stato esposto al virus!

Avrebbe voluto tornare indietro e incasinare la sua stanza anonima prima che lui la vedesse, riempire il comodino di candele e petali di rosa. Se avesse coperto di cera incandescente tutte le superfici dei mobili come una dominatrix sadomaso, lui non se ne sarebbe mai andato. L'avrebbe amata abbastanza da fuggire con lei in Canada, dove lui avrebbe scritto poesie, e lei avrebbe... sbarcato il lunario come ballerina del ventre.

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