Michael White
2007
ISBN 9788846210456
Oxford, 20 marzo, 19.36
Taglia il tubo dell'alimentazione dell'automobile della ragazza mentre lei cena a casa di un'amica, poi guarda la benzina colare sull'asfalto e scorrere giù per la collina, lontano dall'auto.
I residui evaporano lentamente.
Qualche minuto più tardi, la vede emergere dalla casa.
Segue l'auto per mezzo chilometro, nel cuore della campagna.
Osserva in silenzio il veicolo moribondo che accosta a lato della strada.
Spenti i fari e il motore, lascia scivolare in avanti la propria auto, in silenzio. Si ferma una cinquantina di metri dietro la ragazza.
Resta ad ascoltare i suoi inutili tentativi di far ripartire il motore.
Scende dall'auto e percorre a passi lenti la stradina.
Si tiene lontano dal chiarore lunare, nascosto nel mosaico di ombre.
La ragazza è una semplice silhouette nel brillio color limone della luna che si spande dal tetto dell'automobile e illumina rami e foglie d'albero al di sopra.
La plastica che gli copre le scarpe fa splash sul terreno morbido.
Lui sente il ritmo tranquillo del proprio respiro frangersi sulla visiera di plastica che gli copre il volto.
Accelera il passo.
La ragazza smette di girare la chiave di avviamento, guarda attraverso i finestrini, ma non scorge l'uomo che avanza verso l'automobile tra ombre fitte.
Lui la vede sollevare il cellulare dal sedile al suo fianco.
Altri due passi ed è alla portiera.
La spalanca e si proietta all'interno col bisturi teso.
La ragazza urla, perde la presa sul cellulare.
Il telefono le scivola in grembo e poi cade sul pavimento dell'auto.
Con un unico, fluido movimento lui si protende e alza il braccio.
Lei non può vedergli il viso, coperto dal perspex.
La ragazza comincia a tremare violentemente.
Apre la bocca, muta di terrore.
Quando sta per urlare, la mano libera dell'aggressore le copre la bocca.
I loro visi sono ormai a pochi centimetri di distanza.
Lei vede che, sotto la visiera, le pupille nere di lui sono dilatate.
Il dolore inizia come una semplice puntura, ma in un istante le si gonfia in petto.
Incredula, sente un liquido uscire dal proprio corpo e inzupparle la camicetta.
Ha la sensazione che il metallo della lama le scavi il collo, si spinga all'insù a trafiggerle il cervello.
Trema, le esce un ruggito dalla gola.
Il suono incontra il vuoto e viene risucchiato.
Poi la sua bocca emette un fiotto di sangue arterioso che vola oltre il sedile e va a colpire il parabrezza.
Qualche secondo più tardi la ragazza è morta.
Laura Niven venne accompagnata alla porta della Biblioteca Bodleiana dal direttore, il suo vecchio amico, James Lightman.
Si erano visti molte volte in quelle tre settimane: era la prima visita a Oxford di Laura negli ultimi quattro anni.
Scesero lungo i gradini che portavano alla strada.
Laura baciò Lightman sulla guancia e lui la tenne ferma davanti a sé, studiandola. Alta e snella, portava una giacca cremisi a grandi revers, jeans sbiaditi e mocassini scamosciati. I capelli biondi erano raccolti in una crocchia casual.
Il direttore scosse la testa, ammirato.
«È stato meraviglioso rivederti, mia cara», disse.
«Non aspettare così tanto per la prossima visita, eh?»
La voce rauca era quasi un sussurro.
Laura gli sorrise, scrutò il viso rugoso, cordiale. Lightman sembrava proprio una vecchia tartaruga: il suo guscio era la Bodleiana, sede della più magnifica raccolta di libri del mondo intero. Lei gli mise una mano sulla spalla prima di voltarsi e riprendere a scendere i gradini. Giunta in fondo, si fermò e guardò in su, ma lui era già scomparso.
Laura amava quella città, provava una fitta di dolore all'addome all'idea dell'imminente ritorno a casa. Oxford le era entrata nel sangue quando era andata a studiare lì, più di vent'anni prima. Era diventata una parte di lei, e lei ne era diventata una piccola parte. Sentiva di appartenere all'ampio, complesso arazzo umano che costituiva la storia della città.
Svoltò in Broad Street, superò lo Sheldonian e cominciò ad attraversare.
Ma non aveva guardato in entrambe le direzioni: una giovane donna in tenuta accademica, su un'antiquata bicicletta Hercules nera, quasi la investì. Sterzò all'ultimo momento, scampanellando furiosamente. Laura, stranamente euforica, la guardò pedalare verso la St Giles. Vent'anni prima, al suo posto ci sarebbe stata lei, pronta a intimidire i turisti americani.
Forse stava vivendo un momento di rimpianto della gioventù. Ma non era solo la sua storia personale, la sua parte nell'arazzo, a farle amare quella città. Era... cosa? Cosa amava? Non riusciva a definirlo. Era uno di quei sentimenti umani indescrivibili, come l'onore, l'altruismo, il sentimentalismo.
Quand'era lì come studentessa, scriveva lunghe lettere agli amici dell'Illinois e della Carolina del Sud, e a quelli a casa, in California.
Raccontava quello che aveva imparato. Magnificava Oxford perché sentiva di esserne diventata parte. Per lei, Oxford era una città di sogno, un luogo super-reale che offriva ricchezze incomparabili a chi veniva da fuori e riempiva i polmoni di aria fresca. Era, pensò mentre attraversava la St Giles diretta al ristorante dove la aspettavano alle otto e trenta, un posto che rendeva la vita degna di essere vissuta.
L'immagine che Philip Bainbridge aveva di Oxford nello stesso momento era del tutto diversa. Era arrivato in città dalla sua casa di Woodstock, un paese a circa venticinque chilometri dalle antiche mura urbiche, per andare a prendere sua figlia Jo al St John College, sulla St Giles. Lungo il percorso aveva visto soltanto i peggiori aspetti della città.
Su un tratto a due corsie, gli aveva tagliato la strada un'arrugginita Rover 216 che aveva a bordo tre giovanotti un po' troppo attivi di Blackbird Leys, in teoria una zona residenziale, in realtà un grande ghetto lontano pochi chilometri dalle sognanti guglie. Poi, a un semaforo, era stato coperto d'insulti dall'autista di una Mini Metro che lo aveva accusato di avergli tagliato la strada sulla ripida stradicciola che immetteva nella via d'accesso a Oxford. Qualche secondo più tardi, in Banbury Road, un ubriaco si era materializzato davanti alla sua automobile mentre Philip si lasciava alle spalle l'ennesima serie di semafori. E non erano ancora le otto e mezzo di sera.
Ma c'era abituato. Adorava la città, coi suoi difetti e tutto quanto. Ne era innamorato da quando era arrivato lì a studiare filosofia, politica ed economia (FPE) al Balliol College, nel 1980. Ora, a distanza di oltre un quarto di secolo, non sapeva immaginare di vivere altrove; sosteneva, con totale serietà, che se Oxford avesse avuto un clima mediterraneo, si sarebbe chiamata Paradiso e lui avrebbe potuto trascorrervi un'eternità.
E lo diceva un uomo che passava gran parte del tempo a contemplare (o meglio, a essere costretto a contemplare) il lato più atroce dell'antica città.
Dopo anni come fotografo free-lance, adesso il grosso del suo reddito veniva dalla polizia della Valle del Tamigi. Lavorava come fotografo sulla scena del crimine. Negli anni aveva visto oceani di sangue, era stato testimone dei limiti estremi del dolore. E così, sapeva che nel profondo del cuore, al centro dell'anima, Oxford era identica al South Central di Los Angeles o all'East End di Londra. Il suo amore era intatto, ma si rendeva conto che, come dovunque sul pianeta, ciò che Oxford aveva di divino era macchiato del sangue e della materia grigia di tanti cadaveri. Così andava il mondo, si trattasse di Venice Beach, dell'Ottava Avenue o dell'High in una serata estiva oxoniense.
Parcheggiò nella St Giles e corse alla portineria del St John, dove Jo lo aspettava. Era incredibilmente bella, un dipinto di Arthur Rackham in jeans sbiaditi e giacca di pelle Ralph Lauren. I capelli rossicci scendevano a cascata sulle spalle in folti riccioli naturali. Occhi color legna bruciata, carnagione chiara, zigomi alti e labbra piene.
«Scusa il ritardo.»
«Papà, ormai ti conosco», sorrise Jo. Quella voce leggermente roca avrebbe infranto le difese di qualunque uomo capace di resistere al suo aspetto.
Philip scrollò le spalle, offrì il braccio.
«Bene. Siamo pronti per la cena con tua madre?»
«E come no», rispose lei, con una risatina.
Si incamminarono nella via.
«Allora dimmi, ti manca New York?» chiese Philip.
«Non ancora.»
«Non parli mai molto della tua vecchia vita.»
«Non c'è molto da dire, credo. E vecchia vita suona strano. Sono qui solo da quanto? Sei mesi?»
«A me sembra un'intera vita.»
«Oh, grazie!» Jo si girò verso il padre a bocca aperta.
«Fossi in te, la chiuderei.» Jo scosse la testa e sbuffò. «No, qui mi trovo bene. Mi sentivo un po', non so, un po' claustrofobica al Greenwich Village. Gran bel posto, però hai presente? La sindrome dell'appartamento troppo piccolo per un'autrice arrivata alla fama improvvisa con figlia.»
«Sì, una malattia sociale piuttosto diffusa, in una forma o nell'altra. Sono lieto di non doverla affrontare. Uno dei vantaggi dell'essere uno scapolo impenitente, immagino.» Jo gli scoccò un'occhiata scettica. «Dici? Però non controbilancia gli svantaggi, giusto? Te l'ho già detto, una delle mie missioni prima di lasciare queste sacre dimore è trovarti una brava donna. Qualcuno che si prenda cura di te.»
«Per favore. Ti sembra che abbia bisogno di ingrassare?» Philip si batté la mano sulla pancetta.
Attraversarono la strada, superarono la vecchia sede dei quaccheri. Il marciapiede era stretto: rastrelliere metalliche a sinistra, la strada a destra.
File di vecchie biciclette incatenate alle rastrelliere ostruivano il passaggio.
Più avanti, un artista ambulante tentava malamente di fare il giocoliere con arance lanciate in aria. «Vi avanza un po' di moneta?» bofonchiò speranzoso quando lo incrociarono.
A una ventina di metri di distanza, Laura li aspettava davanti al ristorante Brown's.
I piatti erano stati portati via e la cameriera aveva riempito di vino i bicchieri. Laura studiò scettica il menù dei dessert, sorseggiando. Erano vicini alle porte della cucina; nell'andirivieni del personale intravedevano il caos controllato che regnava dietro. L'odore delle sigarette arrivava a zaffate dall'area fumatori, e la conversazione di un centinaio di clienti creava una foschia di voci umane contrappuntate dall'acid jazz appena udibile che usciva dagli altoparlanti.
«Ci mancherai, Laura», disse Philip, col bicchiere levato alle labbra.
Guardò prima lei, poi la figlia.
Il tempo di Laura a Oxford era volato. Doveva rientrare a New York il mattino dopo. Era ansiosa di rivedere l'appartamento al Greenwich Village, carino e spazioso, però una parte di lei faceva resistenza, voleva tenerla inchiodata lì. Oxford le sarebbe mancata, come le due persone più significative del suo mondo: Philip e Jo.
«Oh, sono sicura che tornerò presto», ribatté sistemando dietro l'orecchio destro qualche ciocca bionda. «Per cominciare, dovrò tenere d'occhio questa qui.» Puntò lo sguardo su Jo.
«Già, ovvio. Ho bisogno di essere sorvegliata.» Jo rimproverò con lo sguardo la madre.
«Brindiamo a un volo tranquillo.» Philip levò il bicchiere. Jo gli fece eco, però si stava già alzando e guardava l'orologio. «Mamma, mi spiace proprio, ma vi devo lasciare. Avevo appuntamento con Tom dieci minuti fa.»
«Bene», rispose Laura. «Scappa pure. Salutami il tuo ragazzo.» Jo baciò Philip sulla guancia. «Ci vediamo domattina. Devo controllare che tu abbia biglietto e passaporto», disse girandosi verso Laura con un sorrisetto furbo. Poi si fece strada tra i tavoli vicinissimi l'uno all'altro, camminando a zigzag. All'uscita, si girò a salutare.
Guardandosi attorno, Laura ricordò le tante volte in cui era andata a mangiare in quel ristorante. Lo frequentava regolarmente da studentessa.
Lì aveva avuto il primo appuntamento con Philip, lì gli aveva dato la notizia di essere incinta di Jo. Adorava l'immutabilità dell'ambiente: pareti color panna e specchi antichi, pavimento in quercia levigata ed enormi palme. Scrutando nella sala, quasi riusciva a vedere a un tavolo accanto una versione più giovane di se stessa, di fronte a un Philip dal viso fresco.
«Il tuo viaggio è valso la pena?» chiese Philip. «Hai trovato quello che cercavi?» Laura bevve un altro sorso di vino, mise giù il bicchiere e prese a giocherellare con lo stelo. «Sì e no», sospirò. «A essere onesta, in realtà no.
Ho la sensazione di aver imboccato un vicolo cieco.»
«Davvero?»
«Ehi, succede.»
«Quindi hai sprecato il tuo tempo?»
«No», rispose lei, con enfasi. «Dovrò solo lavorare più sodo.»
Una pausa.
«Le cose non mi sono andate bene, in effetti. Credo che lascerò perdere l'idea.» Philip rimase stupefatto. «Eppure sembrava così promettente.»
«Già, però è quel che succede a chi scrive. Pensi che qualcosa funzionerà, e a volte è vero. Altre volte non funziona affatto.» Dopo anni spesi a cercare di affermarsi come giornalista a New York, scrivendo una mezza dozzina di romanzi nel tempo libero, tutti colati a picco l'uno dopo l'altro, all'improvviso, un anno prima, Laura aveva premuto i pulsanti giusti. Risarcimento, un thriller storico ambientato nella New Amsterdam del diciassettesimo secolo, era stato definito «sfolgorante» dal New York Times. Aveva vinto il premio White Rose e venduto tanto da permettere a Laura di lasciare il lavoro fisso che aveva. I media si erano subito innamorati di lei, del suo aspetto e della sua carriera, lanciandola come una giornalista che si era specializzata nei crimini più atroci avvenuti a New York. Colta l'occasione al volo, Laura si era tuffata nel progetto successivo, un romanzo ambientato nella Oxford del quattordicesimo secolo: il teologo e matematico Thomas Bradwardine, un personaggio realmente esistito, si sarebbe trovato al centro di un complotto per assassinare re Edoardo II.