«Cosa c'è?» chiese Philip.
«Qualcosa di grosso.»
«Ti spiacerebbe...» sibilò Laura.
«Scusi. Di tanto in tanto si verificano congiunzioni planetarie...»
«Quando i pianeti si trovano allineati?» lo interruppe Philip.
«Già. Quando due o più corpi celesti, la luna e i pianeti, visti dalla terra appaiono allineati. Le congiunzioni di due pianeti, o di un pianeta con la luna, si verificano piuttosto spesso. È la cosiddetta congiunzione a tre corpi. Avere una congiunzione a quattro corpi è più raro, accade solo ogni qualche anno. Fra una settimana, alle prime ore del 31 marzo, pochi minuti dopo la mezzanotte per la precisione, la luna e tre pianeti saranno in formazione praticamente perfetta per formare una congiunzione a cinque corpi col sole. La cosa è talmente rara da essere accaduta forse solo dieci volte negli ultimi mille anni o giù di lì.» Laura fu la prima a reagire. «Il che significa che altri tre pianeti entreranno in Ariete nel corso dei prossimi giorni?»
«Proprio così.»
«Puoi scoprire quali?»
«L'ho già fatto.» Tom indicò lo schermo.
«Venere, Marte e Giove, nell'ordine.»
«Quando?»
«Giove, subito dopo la mezzanotte del 31 marzo. Marte, qualche ora prima, la sera del 30 marzo. E Venere... fatemi vedere», borbottò Tom, facendo scorrere la videata.
«Venere entra in Ariete questa sera, alle 21.08 minuti.»
Cambridge, sera del 10 agosto 1690
John Wickins era arrivato a Cambridge nel 1663.
Ormai la città gli era familiare quanto il viso della madre. Conosceva ogni svolta di ogni viuzza, ogni pianta o erbaccia che spuntava dalle pietre del fondo stradale sui suoi percorsi consueti. Conosceva ogni membro del college e ogni cittadino che incrociava i suoi passi. Godeva da tre decenni di molte routine immutabili: comperava libri alla stessa libreria, si riforniva d'inchiostro dallo stesso cartolaio, si faceva fare abiti identici l'uno all'altro dallo stesso sarto, ormai anziano, e acquistava il tabacco da fiuto dallo stesso negoziante che glielo aveva procurato la prima volta venti o più anni addietro. Però ora lui stava per andarsene, e il posto non sembrava più lo stesso. Spinto da una gran fretta, quel giorno aveva preso a nolo un cavallo per rientrare da Oxford.
Arrivò al tramonto. Consegnò le redini allo stalliere: il cavallo sarebbe stato nutrito e abbeverato nelle stalle del college. Un lusso insolito per lui, ma aveva grandi piani e non poteva perdere tempo su carrozze sovraffollate, lente come lumache. Non poteva negare di essere eccitato alla prospettiva della nuova posizione che gli avevano offerto: rettore del St Mary a Oxford. Un'occasione che non poteva lasciarsi sfuggire. Era giunto il momento di staccarsi da Cambridge e da tutto ciò che la vita lì comportava.
Ovviamente, significava lasciare Isaac Newton. Il rapporto tra Wickins e Newton era strano. Si erano conosciuti durante il loro primo trimestre di studio, entrambi depressi e non certo entusiasti della maggioranza degli altri studenti. Tutti e due si erano presentati lì aspettandosi di venire risucchiati da un eccitante gorgo di erudizione; invece avevano scoperto che agli altri studenti interessava soprattutto bere, giocare d'azzardo e frequentare prostitute. Avevano retroterra simili: entrambi erano cresciuti in famiglie della piccola borghesia. Il padre di Wickins era insegnante. Il padre di Newton era morto prima che il figlio nascesse e la madre aveva sposato un vicario. Nessuno dei due aveva qualcosa in comune con la maggioranza dei giovani iscritti al primo anno d'università. Molti erano figli di ricchi proprietari terrieri e mercanti, ma persino quegli zucconi erano meglio dei più pigri e stupidi fra gli studenti, i rozzi eredi della nobiltà, con famiglie pronte a pagare per il successo accademico dei rampolli.
Wickins attraversò la corte del Trinity College, passò sotto l'arco che portava alla scala. Camminava lento, quasi tentasse di rimandare l'inevitabile. Aveva vissuto bei momenti in quella grande città. Era pronto ad ammettere che quasi la sua intera esistenza fosse consistita nella banale routine degli studi prima, nelle ricerche teologiche poi. Però c'erano stati i momenti in cui aveva assistito Newton nel lavoro scientifico, aveva copiato testi per lui, lo aveva aiutato appena possibile. In quei periodi poteva dirsi certo di essere stato vicino al grande Isaac Newton più di ogni altro uomo. E c'erano stati momenti in cui i bisogni del corpo li avevano portati a un'intimità unica, azioni delle quali non parlavano mai e tenevano nascoste al mondo. E, naturalmente, c'era sempre il vero motivo che lo spingeva a vivere a distanza tanto ravvicinata da lui, il motivo che lo aveva incoraggiato a conoscere Newton e farselo amico. Era giunto a capire che Newton era il più pericoloso degli uomini viventi.
Raggiunse la porta dei loro alloggi, estrasse la chiave dalla tasca della giacca e la girò nella serratura. Il corridoio e le stanze sulla destra e sulla sinistra erano immersi nella penombra. Aria calda entrava da una finestra aperta in fondo al corridoio. La porta della sua camera da letto era chiusa, ma quella a destra, che portava alla stanza di Newton e più avanti al suo laboratorio, era socchiusa. Regnava una quiete insolita. Gli unici suoni venivano da una coppia di tordi che avevano nidificato su un olmo, appena oltre la finestra.
Adesso che era lì, Wickins avvertì all'improvviso una forte ondata d'incertezza sui propri piani. Quella era casa sua. Si sentiva al sicuro.
Gettare tutto e mettersi a inseguire una nuova vita a Oxford era la mossa giusta?
Era certo che la sua missione a Cambridge fosse conclusa. Il lavoro era stato di grande importanza e non avrebbe potuto abbandonarlo prima.
Quindi, almeno da quel lato non si sentiva in colpa. La congiunzione dei pianeti si sarebbe verificata la notte seguente, l'11 agosto, ed era chiaro che nessuno avrebbe tentato l'esperimento. Se non lo avesse preparato Newton, nessun altro avrebbe avuto l'abilità, le conoscenze o l'ambizione per provare. Gli amici di Wickins a Oxford erano andati in cerca d'indizi, ma nulla di sospetto si era verificato. Si era saputo di un omicidio la settimana precedente, però risultava chiaro che la ragazza era morta per mano del suo amante, che poi si era suicidato. O, per lo meno, era ciò che erano riusciti ad accertare. Ma anche i suoi amici dovevano ammettere che non sarebbe stato difficile coprire molti crimini, che era impossibile avere certezze.
Mentre toglieva borsa a tracolla, giacca e cappello e li appendeva ai ganci in corridoio, rifletté che il punto davvero cruciale era il fatto che la sfera di rubino era senz'altro al sicuro nel suo nascondiglio. E non era spuntato un genio dell'alchimia armato degli antichi codici e delle conoscenze ermetiche che potessero portarlo al preziosissimo oggetto.
Lo sorprese vedere che la porta del laboratorio di Newton era aperta. Le lenzuola erano accatastate alla rinfusa. Piatti di cibo sul pavimento erano rimasti ignorati. La finestra era spalancata e sull'ampio davanzale c'era una bacinella d'acqua. Pulita, mai usata. Wickins si diresse al laboratorio. Gli batteva forte il cuore. Un subitaneo timore irrazionale lo trafisse. Newton era sempre così attento alla propria privacy.
L'amico non lo aveva sentito. Newton aveva la schiena rivolta alla porta del laboratorio; il bagliore del fuoco nel camino gli illuminava un lato del viso. Teneva qualcosa nelle palme delle mani, qualcosa che Wickins non aveva mai visto nel mondo reale, un oggetto mitologico; però sapeva anche che era vero, sacro al di là delle parole, il punto focale di ogni significato: la sfera di rubino.
Pensò che avrebbe urlato, ma per fortuna nessun suono gli sfuggì dalle labbra. Eppure, l'orrore non si dissipava. Con uno sforzo quasi sovrannaturale riuscì ad alzare la mano al volto e a stringere con le unghie la pelle di una guancia. Fu un atto involontario, come tentasse di convincersi di essere ancora vivo, di avere davanti agli occhi qualcosa di assolutamente reale.
Uno dei tordi atterrò sul davanzale e becchettò dalla catinella d'acqua.
Newton si voltò.
Nei due secondi che seguirono, un milione di pensieri conflittuali corsero nella mente di Wickins, ma ne percepì soltanto due. Uno gli disse di scappare, correre a Oxford e avvertire gli amici. L'altro impulso gli urlò di entrare nella stanza e afferrare la sfera.
Nel tempo che gli occorse per superare la distanza che lo divideva da Newton, lo scienziato si alzò dalla sedia e si preparò all'assalto.
Per un uomo quasi cinquantenne che aveva trascorso l'intera esistenza dedicandosi allo studio, Newton era sorprendentemente agile. Wickins tentò di afferrarlo, ma Newton guizzò di lato; Wickins perse l'equilibrio riuscendo a frenare la caduta aggrappandosi al tavolo vicino al caminetto.
Ruotò su se stesso e vide Newton brancare un fascio di fogli da un altro tavolo.
«Isaac, non puoi farlo», urlò Wickins. «Ti prego... Sai che non...» Ma quello non gli dava retta.
Wickins fu preso da una furia improvvisa quando si rese conto che sprecava il fiato. Balzò avanti e afferrò Newton per la spalla. Lo scienziato si contorse. Wickins perse la presa, ruotò sui tacchi: vide la sfera nella destra dell'altro, poi il pugno, chiuso sulla sfera, si avventò verso il suo viso. Wickins riuscì a schivare, balzò di lato e passò la mano sulla faccia di Newton, graffiandogli la guancia. Newton strillò e colpì con furia cieca l'altro, centrandolo alla mascella. «È mia», urlò. I suoi occhi erano incandescenti.
Wickins precipitò all'indietro, atterrò pesantemente sugli scaffali. Batté la testa sul legno. Vasi e bottiglie ondeggiarono e caddero sul pavimento.
Una bottiglia con l'etichetta «Olio di vetriolo» gli piombò sulla spalla. Il tappo saltò e il contenuto si versò sul braccio. Urlò ma, ancor prima che il suono lasciasse la sua bocca, Newton, con i tratti del viso stravolti da una furia maniacale, fece un passo avanti e gli assestò un calcio in piena faccia.
Wickins crollò sul pavimento, privo di sensi.
Quando si risvegliò, il buio era totale. Il fuoco si era spento. Sentiva freddo, e gli odori che gli giungevano erano quasi insopportabili. Il più inquietante era l'inconfondibile puzzo della pelle corrosa.
Si alzò. Il dolore alla testa lo fece quasi crollare sulle ginocchia. Il braccio pulsava. Barcollò fino alla stanza accanto, leggermente più illuminata. La luna si era alzata e su tutto era sospesa una foschia argentea.
Si guardò il braccio. La stoffa della camicia si era bruciata, la carne era rossa e coperta di vesciche. Raggiunse la bacinella d'acqua sul davanzale, inzuppò una camicia che trovò lì vicino, la usò per tamponare il braccio.
Allora Newton aveva la sfera di rubino. Il peggior incubo di Wickins si era concretizzato. Tentò di pensare nonostante la cortina di dolore. L'acqua fredda sul braccio fu d'aiuto, ma la bruciatura era un tormento straziante, e aveva l'impressione che una dozzina di operai armati di maglio gli percuotessero il cranio, come se dovessero attaccare una formazione rocciosa resistente.
Si ricordò dell'orologio che Newton teneva nella sua stanza e andò a guardare. Era passata l'ora quarta dopo la mezzanotte. Doveva essere rimasto svenuto a lungo. Imprecò sottovoce. Immerse le mani nella bacinella, si spruzzò acqua attorno alla bocca, poi la risputò, rossa.
Cercò di nuovo di pensare, ma il dolore gli paralizzava la mente.
Newton era uscito. Poteva essere vicino a Oxford, o forse era andato altrove per apprestare i preparativi. Mancavano meno di ventiquattr'ore alla congiunzione. Cosa bisognava fare? Avrebbe potuto mandare un messaggio a Oxford, ma come fidarsi di un corriere per un incarico tanto delicato? E poi, cosa avrebbe detto?
Pochi istanti dopo, usciva, diretto alle stalle, con giacca, cappello e borsa a tracolla.
Scelse una giumenta saura, uno dei migliori cavalli delle stalle.
Consegnò il pagamento al garzone in una busta chiusa da trasmettere al tesoriere. Disse che avrebbe spiegato tutto allo stalliere capo al ritorno, entro qualche giorno. Aveva affari urgenti da sbrigare e semplicemente non poteva sprecare un solo momento. Poi, mezzo morto, fece schioccare le redini, portò la giumenta fuori dalle stalle e si diresse al cancello principale, per poi emergere sulla strada.
Raggiunse il paese di Ickwell, novantacinque chilometri a ovest di Cambridge, in due ore. Mentre il sole si alzava sempre più in cielo, un nuovo cavallo, un castrato grigio, lo portò ad attraversare Brill, Hortoncum Studley e poi Islip, prima di immettersi sulla strada che lo avrebbe condotto alla porta orientale di Oxford. Raggiunse le mura della città un'ora e mezzo più tardi. Al trotto svoltò in Merton Street, smontò di sella e consegnò il cavallo a un garzone. Poi tirò diritto fino all'University College.
«Grande merda!» esclamò Robert Hooke quando John Wickins ebbe finito di raccontare la sua storia. «Lo colga la sifilide.» E infilò nella narice un grosso grumo di tabacco.
Si trovavano in uno spazioso appartamento all'University College affacciato sull'High, una serie di stanze che Robert Boyle occupava ogni agosto come parte del suo stipendio. Wickins si sentiva completamente svuotato, gli pulsavano braccio e testa. Era stato ricevuto da Boyle, il quale, pur apparendo fragile e altrettanto stanco, aveva insistito per guardare e curare immediatamente le sue ferite. Con competente delicatezza, aveva tastato la pelle invasa dalle vesciche dell'avambraccio di Wickins, poi lo aveva fasciato. Sul capo gli aveva applicato un impasto di orina di gatto e feci di topo che trovava particolarmente efficace per il mal di testa. Mentre Boyle lo curava, Wickins aveva descritto i recenti fatti avvenuti a Cambridge. Boyle, calmo, aveva assorbito le informazioni con un sospiro qui, un leggero grugnito là. Interrompendosi di tanto in tanto nell'opera di medicazione, aveva scrutato il viso di Wickins, cercando coi penetranti occhi verdi qualcosa di indefinibile. Finalmente era arrivato Hooke, in risposta al messaggio urgente portato da un domestico. Di carattere opposto a quello di Boyle, aveva dato in escandescenze, si era infuriato, aveva imprecato e strillato, prima di buttarsi su una sedia davanti al caminetto spento.
«Quella creatura abominevole, quel... quella canna da clistere», ringhiò, cercando la borsa del tabacco.
Wickins, nonostante il terribile dolore, restò scioccato. «Signore, vi prego, trattenetevi...»