Era necessario lasciarlo in pace. Sono stato anche informato che Nathaniel Milliner doveva essere trattato alla stessa stregua.»
«Allora, cosa possiamo concludere?» chiese Philip. «Quegli omicidi sono quasi identici agli attuali. Stesse mutilazioni, stesse monete metalliche, e la soluzione finale delle indagini era una copertura. Con ogni probabilità il colpevole era Milliner, un membro importante dell'università, un uomo con amici in posizioni molto altolocate. C'è anche il fatto che nel 1851 qui a Oxford l'università era il vero centro di potere. Le autorità avrebbero fatto tutto il possibile per mettere a tacere la verità. Avrebbero fatto quadrato e incolpato qualcuno che consideravano un rifiuto umano insignificante. Così hanno incastrato un operaio irlandese poverissimo e con precedenti. Fitzgerald era perfetto. Povero bastardo. Ovviamente, per tagliare la testa al toro dovremmo inserire le date di quegli omicidi in almanac.com e vedere se corrispondono agli organi rimossi e al tipo di moneta rinvenuto su ogni scena.»
«Infatti, però al momento non abbiamo la password d'accesso che ci ha dato Tom, quindi dovremo aspettare di rientrare a Oxford», ribatté Laura.
«Andiamo a sentire cos'ha da dirci Charlie.»
Il traffico peggiore era attorno a Kew. Le mamme alla guida di fuoristrada, in corsa per recuperare i figli a scuola, non esitavano a tagliare la strada, e i rappresentanti di commercio che tornavano in sede per chiudere la giornata erano altrettanto pericolosi.
Philip aveva preso il volante. «Uscire da qui è come giocare a Space Invaders», gemette quando una giovane donna su una jeep Grand Cherokee sbucò di colpo da una via laterale. «Dio, odio certe cose!» strillò, dando fiato al clacson.
«Ma guarda. Là, sul finestrino posteriore: BIMBO A BORDO!»
Quando raggiunsero la Westway, avevano cominciato ad acquistare velocità. Poi arrivarono all'incrocio di Baker Street, dove si trovarono di nuovo imbottigliati. Erano quasi le quattro e mezzo quando svoltarono in Museum Street.
Philip mise la freccia a destra. Stava per girare nella stretta via quando spuntò un'ambulanza a sbarrare loro il cammino. Philip fece marcia indietro. L'ambulanza corse in direzione di Tottenham Court Road. La prima cosa che videro entrando nella piccola strada furono le luci blu lampeggianti.
Laura schizzò fuori ancora prima che Philip mettesse il freno a mano. Di fronte al White Stag c'era un'automobile della polizia. Subito dietro, un furgoncino blu. Un uomo in tuta protettiva di plastica si stava accomodando al volante del furgone; un altro era già a bordo. Davanti alla porta del negozio c'era un agente in uniforme. Dall'interno spuntarono due poliziotti in borghese.
«Cos'è successo?» esclamò Laura. Aveva raggiunto la porta e vedeva una pozza di sangue sul pavimento, appena oltre l'ingresso.
«E lei è?» chiese uno dei poliziotti. L'altro scrutò Philip che li stava raggiungendo.
«Mi chiamo Laura Niven. Sono una vecchia amica del proprietario, Charlie Tucker.»
«Philip Bainbridge. Charlie ci ha chiamati...» Il furgone blu si stava staccando dal marciapiede. «Sanders», il poliziotto in borghese si girò verso il collega. «Di' a quelli della scientifica che dovranno fare gli straordinari prima di chiudere bottega. Vorrei da loro almeno un resoconto a voce, poi potranno tornarsene a casa.» Tese la mano. «Detective Jones. Chiedo scusa. Signora Niven, signor Bainbridge.
Temo di dovervi informare che il vostro amico è morto qualche ora fa.»
«Ma è...»
«È?»
«Ecco, ci ha inviato un messaggio, mi ha inviato un messaggio alle...
Non so di preciso. Quando è stato, Philip? Prima di mezzogiorno?» Nonostante gli sforzi per controllarsi, la voce di Laura tremava.
Philip annuì.
«Noi siamo arrivati qui circa un'ora fa», disse Jones. «Il corpo è appena stato portato via; dopo che i ragazzi della scientifica hanno finito.» Indicò l'uscita per Museum Street, dove l'ambulanza era quasi entrata in collisione con loro. «Una delle nuove società private di ambulanze. Sono arrivati piuttosto in fretta, debbo ammetterlo.» Poi notò un uomo della scientifica che era sceso dal furgone. «Chiedo scusa.» Con la coda dell'occhio, Laura vedeva ancora la chiazza scarlatta sul pavimento della libreria. Fu presa da un intenso senso di nausea. Inspirò lentamente, profondamente.
«Stai bene?» Anche Philip era scioccato.
«Non so. Forse.» Il tono di Laura non era convincente. «Questa è follia.» Jones tornò dal furgone, scuotendo la testa.
«Mi spiace. So che è un momento difficile per tutti e due, però vi sarei grato se voleste rispondere a qualche domanda.»
«Qualche domanda? Non...»
«Signora Niven, per ora lei non è sospettata, se è questo che pensava. Il signor Tucker è morto per un colpo di arma da fuoco sparato a distanza ravvicinata. Ci piacerebbe sapere qualcosa di più sul suo conto. Era depresso? Può dirci qualcosa su di lui?»
«Un colpo di arma da fuoco? Non...»
Philip prese Laura per il braccio.
«Sì, certo. Siamo a disposizione.»
Oxford, 12 agosto 1690
Poco prima di mezzanotte Erano tutti esausti. A quarantotto anni, Isaac Newton era il più anziano di quasi vent'anni. Landsdown aveva visto solo trenta estati e Fatio, il bel Fatio, era appena venticinquenne. Newton si sentiva decrepito.
Erano in possesso di tutti i codici e le procedure necessarie, ovviamente, sicché erano riusciti a superare indenni i «Tre Stadi di Realizzazione», ognuno dei quali portava inesorabilmente al successivo. Ma la saggezza degli Antichi, da molti adepti ritenuta perduta tra le fiamme di Alessandria, nulla poteva per proteggerli dal calore soffocante nei trecento metri di corridoio che portavano dalla cantina dei vini del college alla loro destinazione: il labirinto segreto diramantesi da un luogo molto al di sotto della Bodleiana in direzione nord verso le fondamenta dello Sheldonian Theatre, a cinquanta metri di distanza. Le loro narici erano intasate dal fetore della terra vecchia, marcia, e di cose in preda a un'umida putrefazione.
Tra la seconda prova e la terza si erano riposati, avevano bevuto vino da una fiasca. Il vino era buono ma troppo caldo. Dopo una brevissima pausa si erano rimessi in movimento. Quella sera non c'era tempo per indugiare.
Completata la terza e ultima prova, Landsdown restituì il manoscritto a Newton, che lo ripose all'interno della camicia. Come la sfera di rubino, era di un valore inimmaginabile. Newton aveva penato quasi diciotto mesi per tradurre l'iscrizione in codice che aveva trovato nel libro di George Ripley; aveva riprodotto il minuscolo disegno del labirinto per poterlo percorrere più facilmente. Presto avrebbero avuto di nuovo bisogno di quelle cose, ma per il momento voleva tenere le preziose carte con la sfera, contro la propria carne.
Landsdown lo seguiva da vicino. La torcia era la loro unica fonte di luce. Poi, all'improvviso, il corridoio si aprì. Newton aveva già percorso da solo alcuni di quei tunnel pochi mesi prima, in cerca della sfera. Anche con la mente aveva già seguito il tracciato della mappa, al sicuro nella privacy del suo laboratorio di Cambridge. Il percorso veniva chiamato «Il Sentiero per l'Illuminazione», un nome scritto in aramaico, una lingua che aveva svelato i propri segreti a Newton in gioventù, quando aveva trascorso lunghi anni a studiare le lingue antiche.
Emersi in un grande spazio circolare, videro, nella fioca luce, il soffitto arcuato, le pareti lisce e umide. La volta in pietra sopra le loro teste era grigia, striata di depositi minerali che si erano fatti strada nel labirinto.
Stando alla mappa, si trovavano poco meno di trenta metri al di sotto della Biblioteca Bodleiana.
Mentre si muovevano lentamente nel locale, Newton sentì Landsdown contare sottovoce i passi. Arrivò a tredici e si fermò. Di fronte alla parete ripeté ciò che aveva fatto nella cantina dei vini del college. Lasciò scorrere le mani sulla pietra ad altezza di cintura. Dopo qualche istante trovò ciò che cercava, un secondo anello di metallo, un duplicato di quello usato per accedere al primo corridoio.
Strane ombre si proiettavano sui loro volti. A Newton, gli occhi di Landsdown sembravano dischi neri imperscrutabili, palle di moschetto in una carne morta. Tutti e tre sudavano copiosamente. Il bavero di Landsdown era inzuppato e grigio.
«Maestro...» Landsdown fece una pausa per riprendere fiato, nella camera stillante umidità. «Vi devo chiedere di prepararvi a ciò che vedrete dietro questa parete. Fatio e io siamo stati presi dai preparativi per il vostro arrivo e ci siamo abituati. Tenetevi pronto.» Al che, tirò l'anello.
Lentamente, un pannello si aprì davanti a loro.
Landsdown fece strada, si girò a sistemare la torcia in un supporto a muro. Newton dovette chinarsi sotto l'architrave in pietra dell'ingresso.
Camminando, tenne gli occhi sul terreno nero.
La stanza era una versione in piccolo di quella che avevano appena lasciato. Era illuminata solo da candele che proiettavano un esangue bagliore dal fondo. Ma persino quello appariva intenso e accecante, dopo l'oscurità quasi completa nella quale si erano aggirati nelle ultime due ore.
Dapprima, a Newton fu difficile mettere a fuoco le immagini, capire esattamente cosa vedesse. Almeno in teoria sapeva cosa attendersi. Aveva studiato i testi, seguendo con cura i disegni e le istruzioni degli Antichi, ma tutto gli sembrava ancora irreale.
Sul fondo della stanza era stata eretta una grande struttura in oro, a forma di pentacolo. Su ogni lato, ricchi porta-candele alti un metro e ottanta; contenevano grandi candele ormai consumate quasi a metà dell'altezza originale. La cera si era accumulata a montagnole attorno alle basi, sul pavimento in pietra.
In cima al pentacolo aureo era stato posizionato un cervello umano. A sinistra, su un'altra punta, all'oro era stato aggiunto un cuore. Spostando lo sguardo, Newton vide due reni sulla punta destra. Più sotto, un altro organo, una cistifellea, e alla base un fegato, umido e luccicante nella luce soffusa. Un odore penetrante gli giunse alle narici. Era essenza di trementina che Fatio, in lunghe ore, aveva distillato dall'alburno del terebinto.
Newton guardò Landsdown, poi Fatio du Duillier. Respirava pesantemente e sudava. I tagli in faccia si erano aperti; il sudore si mescolava al sangue e gli colava in linee rosso scuro su guance e collo.
Nei suoi occhi sgranati fremeva un'eccitazione demoniaca che nessuno dei due compagni aveva mai visto in lui. Quando parlò, la voce era spezzata dalla stanchezza, però colma di sicurezza. «Sono compiaciuto», ansimò.
Un sorriso vago, senza la minima ombra di divertimento, gli aleggiò sulle labbra.
«Sono estremamente compiaciuto.»
Oxford, sera del 28 marzo
Solo nella sala riunioni della stazione di polizia di Oxford, il detective ispettore capo John Monroe vide l'orologio digitale alla parete avanzare di un minuto.
Le 22.04.
Non era solito risentirsi delle richieste del suo lavoro, ma quel giorno era irritato. A quell'ora, nella sua unica serata libera della settimana, di solito rientrava a casa dall'Elizabeth Restaurant su un taxi con Imelda, la fisioterapista trentenne intelligente, simpatica e attraente che aveva conosciuto un mese prima. Invece, eccolo lì a spilluzzicare i resti di un sandwich di Marks and Spencer che aveva visto giorni migliori, in attesa dell'arrivo di tre colleghi maschi, tutt'altro che attraenti.
Sorseggiando un caffè tiepido e amaro, gettò il tovagliolino di carta sul piatto, accanto a una fetta di pane mangiata a metà e qualche residuo di pomodoro. Spinse la sedia all'indietro e si spostò alla lavagna bianca appesa a una parete vicina. Era divisa in quattro colonne. In cima a ognuna era attaccata con lo scotch una serie di fotografie, e in ogni colonna qualcuno aveva scritto con pennarelli dai colori diversi.
La prima colonna portava l'intestazione Rachel Southgate.
La seconda, Jessica Fullerton.
La terza, Samantha Thurow - Simon Welding.
Sopra la quarta colonna, lettere nere maiuscole dicevano Miscellanea.
Monroe lesse ciò che lui stesso aveva scritto ore prima: Laura Niven - Philip Bainbridge Astrologia - Alchimia? 1851 - Professor Milliner Monete Pelle Plastica.
Sentì la porta aprirsi alle sue spalle.
Il capo della scientifica, Mark Langham, fece strada, seguito da un uomo alto, magro, in uniforme, quasi sulla sessantina, che però dimostrava meno dei suoi anni. I corti capelli bianchi, gli occhi azzurri e gli zigomi cesellati gli davano un aspetto teutonico. Trasudava un'autorità innata, che nulla aveva a che fare con le decorazioni sul petto. Otto anni prima, quando Monroe era entrato in polizia, l'allora detective ispettore Piers Candicott era stato il suo primo boss.
«Monroe», disse il comandante Candicott, entrando nella stanza. La voce era profonda e sorprendentemente calorosa. «Sono lieto che tu abbia accettato questo orario indecente. Avevo impegni irrimandabili, temo.» I due si strinsero la mano. «Non c'è problema, signore», rispose Monroe.
«John, ti presento Bruce Holloway, il mio addetto ai rapporti con la stampa. Passa tutto il suo tempo al telefono con schifosi giornalisti, povero ragazzo. Però fa funzionare le cose.» Holloway doveva essere sui trentacinque anni. Era un ometto basso, non più di un metro e sessantacinque, tozzo, con ispidi capelli castani. Annuì a Monroe, senza la minima espressione in viso. Borbottò: «Salve», e gli strinse la mano.
Depositati i resti della sua cena succulenta in un cestino, Monroe scelse la sedia più vicina alla lavagna. Candicott sedette a capo del tavolo, mentre Langham e Holloway si accomodarono su un lato, rivolti verso Monroe.
«Allora, qual è lo stato attuale della situazione, detective ispettore capo?» domandò Candicott.
«La mia squadra lavora ventiquattro ore su ventiquattro», rispose Monroe, ricambiando l'intensità dello sguardo di Candicott. «Stavamo seguendo una traccia basata su alcune prove rinvenute dalla scientifica sulla scena del secondo omicidio.» Scoccò un'occhiata a Langham. «Per il momento però ci hanno portato solo in vicoli ciechi.»
«Niente di concreto, quindi?»
«Chiunque sia dietro questi crimini commetterà un errore, prima o poi.Succede sempre.»