«Speriamo sia prima e non poi, John.»
«C'è anche il fatto», aggiunse Holloway, «che la stampa si sta innervosendo. Un altro omicidio, e penso che il loro quartier generale verrà riposizionato in Banbury Road.» Monroe non aveva mai conosciuto un addetto ai rapporti con la stampa che gli piacesse e, per quanto Holloway dovesse essere in primo luogo un poliziotto e solo in seconda istanza un «funzionario di collegamento», per lui aveva lo stesso comportamento dei giornalisti e degli insopportabili addetti alle relazioni pubbliche che aveva incontrato nel corso della sua carriera.
«Grazie per avermelo ricordato», ribatté, incapace di nascondere l'acidità del tono. «Lo terrò presente.» Si girò verso il comandante Candicott e aggiunse: «Signore, al momento ho ventidue agenti e quarantatré collaboratori collaterali all'opera sul caso. Passiamo al setaccio ogni singola prova, seguiamo ogni traccia e ci sforziamo di trovare tutti i collegamenti possibili con questi crimini. Dopo quattro omicidi in due giorni, ora sono trascorsi sette giorni. Siamo riusciti a riprendere fiato ma, nonostante ciò che ho detto prima, abbiamo a che fare con un assassino molto meticoloso, molto... professionale».
Candicott si limitò ad annuire stancamente.
«Signore, se posso...» Langham si rivolse a Monroe come se fosse l'unica persona presente nella stanza. «Abbiamo qualcosa di nuovo dal laboratorio.» Passò a Monroe un foglio. «Un uomo della mia squadra ha trovato una traccia di sangue nella stanza al primo piano della casa in riva al fiume, la scena del secondo omicidio. Non corrisponde a quelli della vittima o di qualcuno della sua famiglia.»
Monroe studiò lo stampato emesso dall'analizzatore di DNA.
«Purtroppo, per ora il DNA non corrisponde nemmeno a qualcuno che abbiamo già nel database», aggiunse Langham.
«Be', è qualcosa, no?» Gli occhi freddi di Candicott brillavano. «Presumo che la sua squadra sia tornata sulla scena, a ricontrollare ogni centimetro.»
«È naturale, signore», rispose Langham.
«Buona notizia, Mark.» Monroe alzò la testa dal foglio. «Però non trovate riscontri, quindi l'assassino non è presente nel sistema, non ha mai lavorato per un ente governativo, non è mai stato nelle forze armate. Non ho bisogno di ricordarti che ci occorre tutto ciò che i tuoi uomini riescono a trovare. Qualunque cosa.» Bussarono alla porta. Prima che Monroe potesse parlare, entrò un giovane agente.
«Chiedo scusa per l'interruzione, signore.» L'agente ignorò tutti tranne Monroe. «Ho ritenuto fosse troppo importante per aspettare.»
«Sputa, Greene. Cosa non può aspettare?»
«Questo, signore. Ho lavorato sui database per gli ultimi due giorni e... ho ottenuto dall'università il permesso di accedere ai loro sistemi. Non è stato facile, però credo che ne valesse la pena.» Tese a Monroe due pagine fittamente scritte.
«La fonte è la facoltà di psicologia», aggiunse Greene. «Una lista di quarantasette studentesse. Hanno tutte partecipato a quello che la facoltà chiama giorno di prova, un insieme di test psicologici e fisici che si svolge una settimana prima dell'inizio dell'anno accademico, quindi verso la fine del settembre scorso. Tutt'e tre le vittime compaiono nell'elenco.» Nel raggiungere l'uscita Monroe passò davanti all'ufficio di uno dei suoi migliori uomini, l'ispettore Joshua Rogers, che era sulla soglia con una ragazza.
«Grazie dell'informazione, signorina Ingham», lo sentì dire Monroe. «Ci metteremo in contatto. Uno dei miei uomini la accompagnerà fuori. Ha qualcuno ad attenderla in auto?» La ragazza annuì, aprì la doppia porta, dirigendosi alla scala.
Monroe corrugò la fronte.
«Marianne Ingham», spiegò Rogers. «Una studentessa del St John. Ha trovato questa deliziosa opera d'arte nella sua casella al college.» Monroe fece una smorfia vedendo la fotografia. «Sa chi sia l'autore?»
«Non ne è sicura. Ha i nervi molto scossi. Le è occorsa una settimana per decidersi a portarcela. Però sospetta uno studente del suo anno. Un certo Russell Cunningham.»
«Bene. Esegui un controllo su di lui e fammi sapere subito se ne vien fuori qualcosa. Io torno a casa.» Il cellulare di Monroe squillò mentre imboccava il viale d'accesso davanti al suo appartamento.
«Ho pensato che avrebbe voluto vederla subito», disse Rogers.
Monroe spense il motore, alzò il telefono. Sullo schermo apparve l'immagine di un giovanotto. Sorprendentemente bello: lunghi riccioli biondi, sopracciglia eleganti, bocca dalla linea delicata.
«Un ragazzo di bell'aspetto, signore.» La foto venne sostituita da una pagina di testo che sfilò lentamente sul display.
«Ricco. Suo padre è proprietario di una catena di hotel. È stato espulso dalla Downside quando aveva sedici anni. Non sono riuscito ad appurare il vero perché. La famiglia è stata bravissima nel convincere la scuola a mettere tutto a tacere. Il padre probabilmente lo ha aiutato a entrare a Oxford. Guarda caso, la biblioteca Cunningham al Magdalen College è stata completata l'anno scorso, sei mesi prima che il ragazzo arrivasse qui.
C'è dell'altro. Due denunce per molestie sessuali presentate da dipendenti femmine di uno degli hotel di famiglia a Londra, mentre lui era lì per un periodo di lavoro. La prima quando Russell aveva diciassette anni, poi di nuovo l'anno scorso. Non si è arrivati in aula. Accuse ritirate. Le ragazze non lavorano più all'hotel.» Sullo schermo comparivano date, luoghi, nomi.
«Ottimo lavoro, Josh», lo lodò Monroe. «Candicott è ancora lì col tirapiedi dell'ufficio stampa?»
«No. Sono usciti subito dopo di lei.»
«Okay. Senti, per il momento tieni riservata l'informazione. Ci vediamo domattina presto alla facoltà di psicologia di South Parks Road. Scambia due parole con Greene, se è ancora in sede. Digli di predisporre tutto per un'azione veloce.»
Oxford, 29 marzo, 9.00
Svoltando in South Parks Road, John Monroe rifletté su quanto fosse brutto l'edificio che ospitava la facoltà di psicologia.
Era in piedi da prima dell'alba. Aveva passato in rassegna i particolari del caso. Sul computer di casa aveva rivisto, per quella che doveva essere la centesima volta, i dati essenziali. Quattro omicidi, quasi certamente un unico assassino, qualcuno che lavorava da solo, con ogni probabilità un maschio. E la polizia cosa aveva? Un frammento di DNA, senza riscontri nei propri database; anzi, a quanto sembrava, senza riscontro in assoluto.
Poi c'erano gli aspetti ritualistici, le monete, la rimozione degli organi.
Laura Niven e Philip Bainbridge erano convinti di una connessione con l'occulto. Infine, gli omicidi del 1851. Doveva esserci un legame.
Cosa sapeva di quei casi? Aveva scavato negli archivi, dedicato quasi ogni minuto libero della settimana precedente a esaminare tutti i dettagli.
Tre ragazze e uno studente maschio erano stati uccisi nell'anno della Grande Esposizione. Un operaio irlandese era stato mandato a morte, ma gli storici del crimine sapevano bene che il professor Milliner era stato intimamente coinvolto negli omicidi, che aveva rapporti con l'occulto, che apparteneva a qualche gruppo di magia nera, che le autorità dell'università avevano fatto quadrato intorno a lui. Nel giro di un anno, Milliner aveva avuto una cattedra a Torino e la sua famiglia era completamente svanita dalla scena di Oxford. Ora, dopo i nuovi crimini, si era scoperto che le tre vittime femminili si erano sottoposte volontariamente a dei test alla facoltà di psicologia poco prima dell'inizio dell'anno accademico.
Monroe si diresse al parcheggio. Rogers stava già smontando dall'auto, vicino all'ingresso principale dell'edificio. Manovrando per sistemare il proprio veicolo accanto a quello dell'ispettore, Monroe fu sorpreso da un'auto sportiva, una Morgan, che faceva retromarcia troppo in fretta.
Lanciò un'occhiataccia all'autista, che però sembrava indifferente a tutto ciò che lo circondava, interessato solo a raggiungere al più presto la strada.
Con un sussulto, Monroe si rese conto di aver riconosciuto il viso.
«Ho preso il numero di targa», lo informò Rogers, non appena Monroe lo raggiunse.
«Era Cunningham, ne sono certo.» Rogers restò sorpreso.
«Farò controllare la targa.»
«Provvedi subito», ordinò secco Monroe, e si girò verso la porta.
In periodo di vacanze, la facoltà era relativamente tranquilla. La zona ricevimento consisteva in poche sedie sistemate attorno a un tavolo. Lungo una parete correvano diverse file di armadietti e caselle. Accanto, una grande bacheca coperta di poster per serate musicali ed eventi sportivi.
Sull'altro lato, una vecchia copia del Daily Information, un foglio stampato distribuito in ogni parte della città: reclamizzava spettacoli, mostre, e pubblicava annunci di compravendita tra privati. Monroe si avvicinò al tavolo, dove una donna grassa, con un vestito a fiori, studiava uno schermo di computer. Dopo essere stato ignorato per venti secondi, lui batté le nocche sul piano. La donna lo guardò furibonda.
«Detective capo Monroe, polizia della Valle del Tamigi», si presentò, mostrandole il distintivo. «Sono qui per vedere il dottor Rankin, se non disturbo.» La donna restò del tutto indifferente.
«C4. L'ascensore è là. Non credo sia ancora arrivato...»
«Sì, ci sono, Margaret.» Monroe si girò. Vide un uomo alto, ossuto, con un vago sorriso sulle labbra. «Arthur Rankin», disse, stringendo la mano del detective.
A Rogers rivolse un cenno del capo.
«Voglia perdonare Margaret», aggiunse Rankin, scortandoli all'ascensore. «Dopo i primi cinque anni, ci si abitua.» L'ascensore aveva uno strano odore di terra. Monroe impiegò qualche istante per capire che veniva dal professore.
«Avevo intenzione di arrivare prima», si scusò Rankin, quando l'ascensore si fermò al quarto piano.
«Ma quella maledetta automobile non voleva saperne di partire. Così mi sono fatto una passeggiata nel parco. Molto piacevole, in effetti. E non ha piovuto, tanto per cambiare.» Il suo ufficio era un piccolo bozzolo tappezzato di carta, sui toni di bianco, marrone e grigio. L'unica finestra dava su una squallida corte interna in cemento. Le famose guglie sognanti nemmeno si intravedevano.
Rankin si tolse il cappotto, sgombrò carte e libri dalle due sedie di fronte alla scrivania. «Accomodatevi. Chiedo scusa del caos. Non riesco mai a mettere ordine qui dentro.»
«Tutto okay, professore. Non c'è bisogno di fare cerimonie. Abbiamo solo qualche domanda veloce», ribatté Monroe, sedendosi.
«In cosa posso esservi utile?»
«Ci interessano i test condotti su quarantasette studentesse alla fine di settembre dello scorso anno. Cosa ci può dire al riguardo?» Sul momento, Rankin parve perplesso. Aveva una fronte alta, e quando la aggrottava sembrava che portasse una fascia di vermi. Poi, di colpo, la sua espressione si illuminò. «Ah, ho capito. Lei si riferisce ai test di Julius Spenser.» Monroe non disse niente.
Rankin emise un colpo di tosse, cominciò a sfogliare carte sulla scrivania. Poi si alzò e raggiunse una parete coperta da scaffali. Si accoccolò, sollevò un mucchio di cartelle e fogli sparsi, li depositò sulla scrivania. Si leccò la punta di un dito e prese a sfogliare. Qualche istante dopo si fermò.
«Sì, sapevo che doveva essere qui.» Tese una cartella verde a Monroe.
«Spenser era in gamba, aveva tante ottime idee.»
«Era?» chiese Monroe.
«Ci ha lasciati prima di Natale. Gli hanno offerto un'interessante posizione a Boston. Al MIT, credo.»
«Esattamente, cosa faceva?»
«Il suo campo era lo studio dei quozienti di intelligenza.» Rankin guardò fuori dalla finestra, verso l'orizzonte grigio. «Non è la mia passione, temo.
Un po' troppo arido per i miei gusti.»
«Cosa comportavano i test?» domandò Monroe, passando frettolosamente in rassegna le pagine che aveva davanti.
«Aveva i suoi sistemi. Un tipo molto poco ortodosso. Ritiene che il quoziente d'intelligenza sia direttamente collegato alla struttura di connessione tra i due emisferi del cervello, il corpo calloso. Le è familiare l'idea del cervello diviso?» Monroe annuì. «Vagamente, da profano.»
«Nel secolo scorso, attorno agli anni Sessanta, le ricerche sembravano dimostrare che le due metà del cervello sono diversissime. Il cervello sinistro è la parte analitica, il destro è l'emisfero immaginativo, artistico.
Roger Sperry ha vinto un premio Nobel per avere partorito quest'idea.»
«E Julius Spenser voleva sviluppare quelle teorie?»
«Era un discepolo di Sperry. Ha studiato con lui al Caltech alla fine degli anni Ottanta.»
«Cosa faceva esattamente il dottor Spenser?» chiese Monroe. «Come conduceva i suoi test?»
«È tutto lì.» Rankin annuì in direzione delle carte che aveva passato a Monroe. «Aveva una cinquantina di soggetti. Alla fine, quarantasette, se non sbaglio. Erano tutte giovani donne, in quella fase.»
«Quella fase?»
«Aveva condotto una serie simile di test su giovani maschi il mese prima. Le ragazze trascorrevano la maggior parte del tempo su test d'intelligenza scritti, poi test di manipolazione fisica, analisi delle risposte e dei riflessi, esperimenti sulla consapevolezza spaziale. Venivano anche sottoposte a esami medici e scansioni cerebrali.»
«Esami medici?» Monroe era perplesso. «Sì. Erano un elemento chiave della proposta di Spenser. A suo giudizio, il quoziente intellettivo è direttamente legato a parametri fisici.»
«Cosa comportavano gli esami medici?»
«Be', adesso che me lo chiede, devo dire che io non ero presente.
Anzi, quel giorno non ero nemmeno a Oxford. Però è chiaro che Spenser deve aver sottoposto la sua procedura all'approvazione un mese o due prima. Diamo un'occhiata.» Monroe gli restituì la cartella. «Sì, sì, ci siamo», disse Rankin dopo qualche istante. «Sostanzialmente, una TAC, una scansione dell'intero corpo. Le ragazze hanno fatto i test d'intelligenza qui, poi sono andate al John Radcliffe. Una procedura costosa, ma Spenser era bravissimo a ottenere finanziamenti.» Monroe, in silenzio, sfogliò il materiale, lo passò a Rogers un foglio alla volta. «Ne deduco che Spenser non lavorasse da solo.»
«No, no. Era sempre qui, naturalmente. Un bravo supervisore con eccellenti capacità manageriali. Ha avuto tre assistenti per i test e poi altri tre, giovani laureate con dottorato di ricerca all'ospedale che ha condotto le... le ricerche fisiologiche.» Rankin rivolse un sorriso storto ai due poliziotti. «Le analisi dei risultati sono state effettuate dal giovane Bridges.»